50 anni fa moriva Pablo Neruda: un io lirico immortale

di Costanza Maugeri
14 Min.

Quando arriva il momento in cui bisogna scrivere un articolo in occasione dell’anniversario di nascita o di morte di un autore, è sempre piuttosto complicato. Lo scoglio non si incontra tanto nel cosa raccontare, ma nel come.

Narrare l’io di Ricardo Reyes Basoalto, conosciuto come Pablo Neruda, lo è ancor di più. Egli è un essere umano contradditorio e dalla sua incessante contraddizione fiorisce la poesia, parole-immagini che si fanno brividi sulla pelle del Mondo.

Pablo Neruda nasce il 12 Luglio 1904 a Parral, in Cile.

Nascere non basta.
È per rinascere che siamo nati.
Ogni giorno.

Nascere non basta, Pablo Neruda

La sua vita conosce fin da subito il dolore della morte: a due mesi la madre muore ed egli verrà cresciuto dai nonni. A 13 anni pubblica la sua prima opera: “Entusiasmo y Perseverantia” sul giornale La Mañana della città cilena di Temuco.

Dieci anni dopo, nonostante le scarse conoscenze dell’inglese e del francese, si trasferisce a Roongon, in Birmania (all’epoca facente parte dell’impero britannico). Qui diventa console onorario nel 1927. La carriera politica gli dà la possibilità di vivere in Medio Oriente: Birmania, Sri Lanka, Giava e Singapore.

Pablo Neruda
Pablo Neruda

Tra il 1934 e il 1938 è in Spagna, nel Paese iberico entra in contatto con i poeti della Generazione del ’27, tra i quali Federico García Lorca (con il quale costruirà una sincera amicizia), Rafael Alberti, Vicente Aleixandre, Gerardo Diego, Miguel Hernández. Nel 1936, allo scoppio della Guerra Civile spagnola si schiera con i repubblicani. Nel 1937 scrive una dedica alla Spagna: España en el corazón (Spagna nel cuore).

In quest’ora ricordo tutto e tutti,
nelle fibre, nel profondo, nelle
regioni che — suono e penna —
battendo un poco, esistono
oltre la terra, ma nella terra. Oggi
comincia un nuovo inverno.
Non v’è in questa città,
dove sta ciò che amo,
non v’è pane, né luce: un vetro freddo cade
su gerani secchi. Di notte sogni neri
aperti da obici, come buoi insanguinati:
nessuno nell’alba delle fortificazioni,
altro che un carro rotto: già muschio, già silenzio di età
invece di rondini nelle case bruciate,
dissanguate, vuote, con porte volte al cielo:
già il mercato sta aprendo i suoi poveri smeraldi,
e le arance, il pesce,
ogni giorno portati attraverso il sangue,
si offrono alle mani della sorella e della vedova.
Città a lutto, scavata, ferita,
rotta, battuta, bucherellata, piena
di sangue e di vetri rotti, città senza notte, tutta
notte e silenzio, e scoppi ed eroi,
ora un nuovo inverno più nudo e più solo,
ora senza farina, senza passi, con la tua luna
di soldati.
A tutto, a tutti.
Sole povero, sangue nostro
perduto, cuore terribile
scosso e piangente. Lacrime come pesanti pallottole
son cadute sulla ma terra scossa col suono
di colombe che cadono, mano che chiude
la morte per sempre, sangue di ogni giorno,
di ogni notte, di ogni settimana e di ogni
mese. Senza parlar di voi eroi addormentati
e svegli, senza parlar di voi che fate tremare l’acqua
e la terra con la vostra volontà insigne,
in quest’ora ascolto il tempo in una strada,
qualcuno mi parla, l’inverno
giunge di nuovo agli alberghi
in cui ho vissuto,
tutto è città ciò che ascolto e distanza
circondata dal fuoco come da una schiuma
di vipere, assalita
da un’acqua d’inferno.
È ormai più di un anno
che i mascherati toccano la tua riva umana
e muoiono al contatto del tuo elettrico sangue:
sacchi di morì, sacchi di traditori,
sono rotolati ai tuoi piedi di pietra: né il fumo, né la morte
han conquistalo i tuoi muri ardenti.
Allora.
che c’è, allora? Sì, sono quelli dello sterminio,
sono i divoratori: ti spiano, città bianca,
il vescovo dalla torbida cervice, i signorini
fecali e feudali, il generale nella cui mano
suonano trenta denari: stanno contro le lue mura
un cinturone di piovigginose beghine,
uno squadrone di ambasciatori putridi
e un triste singhiozzo di cani militari.
Lode a te, lode di nube, di fulmine.
di salute, di spade,
fronte sanguinante il cui filo di sangue
si riflette sulle pietre colpite,
fluire di dolcezza dura,
chiara culla di lampi armata,
cittadella materiale, aria di sangue
da cui nascono api.
Oggi tu che vivi, Juan,
oggi tu che guardi. Pedro, concepisci, dormi, mangi:
oggi nella notte senza luce vigilando senza sonno e senza riposo,
soli nel cemento, per la terra tagliata,
dai luttuosi fili, al Sud, in mezzo, intorno,
senza cielo, senza mistero,
uomini come un collare di cordoni difendono
la città circondata dalle fiamme: Madrid
indomita
per colpo astrale, per commozione del fuoco:
terra e vigilia nell’alto silenzio
della vittoria: scossa
come una rosa rotta: circondata
di alloro infinito!

“Madrid 1937” di Pablo Neruda

Il suo ruolo nella Guerra Civile Spagnola

Pablo Neruda
Guernica, Pablo Picasso

La Guerra Civile costringe migliaia di persone all’esilio, prevalentemente oppositori politici. A causa della dilagante diffusione del Nazifascismo in Europa, Neruda pressa il Governo cileno affinché accolga i rifugiati spagnoli. Egli ottiene i finanziamenti per garantire un posto agli esiliati sulla Winnipeg, che salpa dal porto fluviale di Pauillac il 4 agosto 1939. Dopo una navigazione di quasi un mese, la nave giunge in Cile il 3 settembre . Neruda cambia, per sempre, la vita di più di duemila persone.

Il ritorno in Cile

Parral, Cile

Nel 1939 Pablo Neruda torna in Cile e si iscrive al Partito Comunista. Da questo momento la sua produzione assume una connotazione prettamente politica, culminando, nel 1950, in Canto General. Un’opera che si propone di essere il monumento politico della storia dell’America Latina.

La prima cosa che vidi furono
alberi, burroni
decorati di fiori di selvaggia bellezza,
umido territorio, boschi che s’incendiavano
e l’inverno dietro il mondo, straripato.
La mia infanzia sono scarpe bagnate, tronchi spezzati
caduti nella selva, divorati da liane
e scarabei, dolci giorni sull’avena,
e la barba dorata di mio padre che partiva
verso la maestà dei treni.
Di fronte alla mia casa, l’acqua australe scavava
profonde sconfitte, pozzanghere d’argilla a lutto,
che in estate erano atmosfera gialla
per dove i carri cigolavano e piangevano
pregni di nove mesi di frumento.
Rapido sole del Sud:
stoppie, fumate
su strade di terre scarlatte, rive
di fiumi dal linguaggio rotondo, cortili e stalle
su cui riverberava il miele del mezzogiorno.
Il mondo polveroso entrava grado a grado
nei capannoni tra botti e corde
in cantine cariche del riassunto rosso
del nocciòlo7, tutte le palpebre del bosco.
25 Mi sembrò di ascendere8 nel torrido vestito
dell’estate, con le macchine trebbiatrici,
su per i pendii, nella terra verniciata di “boldi”
alta tra le querce, indelebile,
attaccantesi alle ruote come carne schiacciata.
La mia infanzia percorse le stazioni: tra
le rotaie, i castelli di legna fresca,
la casa senza città, protetta appena
da animali e meli dal profumo indicibile
andai, io, esile bimbo la cui pallida forma
s’impregnava di boschi vuoti e di cantine.

da Canto generale, Canto XV, “Io sono”

Nel 1945 vince il Premio nazionale di Letteratura del Cile, ma la sua posizione politica si complica ed è costretto ad esiliare. Egli si reca, quindi, in Argentina. Durante l’esilio visita l’Unione Sovietica, la Cina e il Messico. Al ritorno in Cile la sua poesia ancora diventa più essenziale, come testimonia l’opera cardine di questo periodo, Odas elementales (Odi elementari). Nel 1956 divorzia dalla seconda moglie, Delia del Carril, per unirsi a Matilde Urrutia, sua compagna di vita fino alla fine.

Gli ultimi anni

Neruda ottiene Il Premio Nobel per la Letteratura nel 1971. L’anno precedente aveva rinunciato alla candidatura alla presidenza del Cile in favore di Salvador Allende, che poco tempo dopo lo nomina ambasciatore a Parigi. Nel 1973, malato di cancro alla prostata, torna in Cile e muore a Santiago il 23 settembre. Sulla sua morte, però, aleggia un velo di mistero.

Pablo Neruda: il nome d’arte che lo consacrò

Ancor prima di leggere e analizzare due delle opere più travolgenti di Pablo Neruda comprendiamo, insieme, perché Neruda sceglie di adottare un nome d’arte e perché proprio quello con il quale è passato alla storia. Ricardo Reyes Basoalto inizia a firmarsi come Pablo Neruda nel 1920. Scelta che deriva da ragioni familiari. Il padre, infatti, non accetta l’amore del figlio per la poesia; così inizia ad usare un nome d’arte per non turbarlo e per proteggere l’intera famiglia.

La scelta di adottare il nome d’arte Pablo Neruda si fonda su due ipotesi:

  • il poeta aveva letto un racconto di Jan Neruda, uno scrittore cieco che lo aveva molto colpito;
  • l’origine del nome si rintraccia in un personaggio minore del romanzo Uno studio in rosso di Arthur Conan Doyle, in cui compare per la prima volta Sherlock Holmes. 

In ogni caso, l’autore adotta ufficialmente e legalmente il nome d’arte solo nel 1946. Desiderio che nasce, forse, anche dalla volontà di abbandonare il cognome “Reyes”(re) che odia a causa del suo orientamento politico.

“La Poesia” di Pablo Neruda

Musa della Poesia

Accadde in quell’età…La poesia
venne a cercarmi. Non so da dove
sia uscita, da inverno o fiume.
Non so come né quando,
no, non erano voci, non erano
parole né silenzio,
ma da una strada mi chiamava,
dai rami della notte,
bruscamente fra gli altri,
fra violente fiamme
o ritornando solo,
era lì senza volto
e mi toccava.

Non sapevo che dire, la mia bocca
non sapeva nominare,
i miei occhi erano ciechi,
e qualcosa batteva nel mio cuore,
febbre o ali perdute,
e mi feci da solo,
decifrando
quella bruciatura,
e scrissi la prima riga incerta,
vaga, senza corpo, pura
sciocchezza,
pura saggezza
di chi non sa nulla,
e vidi all’improvviso
il cielo
sgranato
e aperto,
pianeti,
piantagioni palpitanti,
ombra ferita,
crivellata
da frecce, fuoco e fiori,
la notte travolgente, l’universo.

Ed io, minimo essere,
ebbro del grande vuoto
costellato,
a somiglianza, a immagine
del mistero,
mi sentii parte pura
dell’abisso,
ruotai con le stelle,
il mio cuore si sparpagliò nel vento.

Nel 1964, Pablo Neruda scrisse una delle più belle lodi alla Poesia. Per semplificare l’analisi, divideremo l’opera in tre parti, evidenziate con spazi.

L’autore apre l’opera con un verso che ci immerge in una visione fatale del talento; esso, infatti, non è una scelta, ma una visita inattesa. Neruda ignora il luogo e il momento in cui essa ha avuto origine. Egli custodisce soltanto un’immagine notturna in cui si muovono rami e fiamme; qui una presenza, senza volto, lo sfiora.

Questa visione lo immobilizza: bocca e occhi perdono la loro funzione, egli percepisce solo, nel petto, qualcosa che batte. Su di lui una bruciatura dalla quale nasce il primo verso poetico. Essa non si rimargina, anzi, è una fessura da cui si svelano il cielo, i pianeti, l’universo. In tal senso, Neruda avverte la Poesia come un dolore necessario per un poeta.

Dopo l’iniziale incontro con la Penna, Neruda si sente parte stessa dell’abisso, dei pianeti, dell’infinito. Egli si fonde con l’intero cosmo, tanto che il suo cuore assume la stessa forma del vento, danzando al ritmo delle stelle.

“T’amo senza sapere come” di Pablo Neruda

Non t’amo come se fossi rosa di sale, topazio
O freccia di garofani che propagano il fuoco:
t’amo come si amano certe cose oscure,
segretamente, entro l’ombra e l’anima.

T’amo come la pianta che non fiorisce e reca
Dentro di sé, nascosta, la luce di quei fiori;
grazie al tuo amore vive oscuro nel mio corpo
il concentrato amore che ascese dalla terra.

T’amo senza sapere come, né quando né da dove,
t’amo direttamente senza problemi né orgoglio:
così ti amo perché non so amare altrimenti
che così, in questo modo in cui non sono e non sei,
così vicino che la tua mano sul mio petto è mia,
così vicino che si chiudono i tuoi occhi col mio sonno.

Gli Amanti, Magritte

Questa poesia, tra le più celebri di Neruda, riprende il motivo del “non so da dove sgorga, ma lo percepisco” dell’opera precedente. Il poeta non ama la sua donna come ciò che è facile amare, ad esempio, una rosa o una pietra preziosa. Egli ama segretamente nell’ombra dell’anima, come la pianta non fiorita che conserva, in potenza, la bellezza dei fiori.

Il poeta, scosso dal sentimento amoroso, ignora tutto di esso, tranne l’impulso primordiale dentro di lui. Un amore ribelle a ogni categorizzazione, a ogni nome. Esso è simbiosi dei due innamorati: la mano di lei diventa estensione di lui, e il sonno del poeta fa cadere tra le braccia di Morfeo anche l’amata.

Di Costanza Maugeri


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