Il “Canto Notturno” di Leopardi: alla base dell’ispirazione poetica

di Costanza Maugeri
8 Min.

Questo articolo nasce da un pensiero sorto in me, mesi fa, quando ho iniziato a studiare filologia. Abituati ad aprire un libro o leggere una poesia e vederli sempre uguale a loro stessi, ci dimentichiamo qualcosa. Dietro ogni testo c’è sempre l’ispirazione.

Esemplare è, ad esempio, Il “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia“. Prima di immergerci nell’elemento che ha ispirato Leopardi. Che dite? Ve lo racconto un po’

Il “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” di Giacomo Leopardi

Un dialogo con la Luna, scritto nel 1829, che si esaurisce – o esplode – in un monologo esistenziale di un pastore “errante dell’Asia”.

Che fai tu Luna in Ciel?

Con queste parole l’U(u)omo interroga la Luna che, però, non risponderà mai. Un confronto esistenziale tra il satellite terrestre eterno e immune agli affanni e la vita dell’essere umano breve e colma di dolore. Ma la domanda è la stessa: a che fine?

Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.

Il Canto è un’accumularsi di interrogativi che sembra voler rispondere sempre agli stessi:

Che senso ha nascere? Per poi soffrire? Per poi morire?

Nasce l’uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell’esser nato.
Poi che crescendo viene,
L’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell’umano stato:
Altro ufficio più grato
Non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
Perché reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
Perché da noi si dura?

La Luna non risponde, nella sua indifferenza, accresce l’angoscia di chi legge.

Intatta luna, tale
È lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
E forse del mio dir poco ti cale.

Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante,
E perir dalla terra, e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
Il perché delle cose, e vedi il frutto
Del mattin, della sera,
Del tacito, infinito andar del tempo.

L’indifferenza consapevole della Luna sembra risiedere nella mancata capacità di provare dolore che appartiene invece all’Uomo.

O greggia mia che posi, oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d’affanno
Quasi libera vai;
Ch’ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,
Tu se’ queta e contenta;
E gran parte dell’anno
Senza noia consumi in quello stato.

Ma, allora, se la Luna non soffre basterebbe per l’Uomo essere come le cose immortali o come gli animali?

Forse s’avess’io l’ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
Mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,
È funesto a chi nasce il dì natale.

La risposta è un lapidario “no”. Vediamo, insieme, la parafrasi dell’ultima strofa.

Forse, se io avessi le ali per volare sopra le nubi, e contare le stelle ad una ad una, o [potessi] vagare come il tuono di vetta in vetta, sarei più felice, mio dolce gregge, sarei più felice, candida luna.
O forse il mio pensiero si allontana dalla verità, guardando la condizione altrui: forse in qualsiasi forma, in qualunque stato che sia, dentro una tana o una culla, il giorno della nascita è funesto per chi nasce.

Cosa ha ispirato Leopardi per la composizione del Canto Notturno?

Les Kirkis (nazione nomade, al Nord dell’Asia centrale) ont aussi des chants historiques (non scritti) qui rappellent les
hauts faits de leurs héros; mais ceux-là ne sont récités que par des chanteurs de profession, et M. de Meyendorff
(barone, viaggiatore russo, autore d’un Voyage d’Orenbourg à Boukhara, fait en 1820. Paris 1826; dal quale sono
estratte queste notizie) eut le regret de ne pouvoir en entendre un seul. Ib. septemb. p.518. Plusieurs d’entre eux (d’entre
les Kirkis), dice M. de Meyendorff, ib., [4400]passent la nuit assis sur une pierre à regarder la lune, et à improviser des
paroles assez tristes sur des airs qui ne le sont pas moins.

Lo Zibaldone, 3 Ottobre 1828. Giacomo Leopardi

Il 3 Ottobre del 1828 Leopardi registra una lettura relativa ad un’opera del barone russo de Meyendorff. Scritta dopo un viaggio politico e culturale nelle steppe dell’Asia. Leopardi non verrà mai direttamente a contatto con il testo, ma leggerà solo l’articolo concernente sul “Journal des Savans”. Il tema dei pastori erranti e, in particolare, un passo dell’articolo riattivano in Leopardi il tema pastorale e del Canto.

kirkisi (nazione nomade, al Nord dell’Asia centrale), hanno anche dei canti storici (non scritti) che richiamano alla memoria le grandi imprese dei loro eroi; ma quelli sono recitati soltanto da cantori di professione, e M. de Meyendorff (barone viaggiatore russo, autore d’un viaggio da Orenbourg a Boukara, fatto nel 1820, Parigi 1826 dal quale sono estratte queste notizie) ebbe il dispiacere di non averne potuto ascoltare uno solo. Ib.septemb. p.518.

Molti di questi (dei Kirkisi), dice M.de Meyendorff, ib., trascorrono la notte seduti su un masso a guardare la luna, e a improvvisare parole assai tristi su delle arie le quali non lo sono di meno»

Il Canto in Leopardi ha una semantica immensa. Non è “solo” parola in musica, anzi, l’accezione moderna nell’autore non è proprio registrata.

La poesia, quanto a’ generi, non ha in sostanza che tre vere e grandi divisioni: lirico, epico e drammatico. Il lirico,
primogenito di tutti; proprio di ogni nazione anche selvaggia; più nobile e più poetico d’ogni altro; vera e pura poesia in
tutta la sua estensione; proprio d’ogni uomo anche incolto, che cerca di ricrearsi o di consolarsi col canto, e colle parole
misurate in qualunque modo, e coll’armonia; espressione libera e schietta di qualunque affetto vivo e ben sentito dell’uomo.

Lo Zibaldone, 15 Dicembre 1826. Giacomo Leopardi

Nel pensiero del 15 Dicembre 1826 comprendiamo che per Leopardi il canto è l’espressione più autentica dell’animo umano. La consolazione suprema di ogni uomo. Il modo in cui l’essere umano comunica, anche se incolto. Come se l’io lirico di un uomo nascesse dal pianto. Dal pianto che l’Uomo grida la tragicità e la bellezza di essere venuto al Mondo. Come se il battito cardiaco ispirasse il canto.


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