Oscar Wilde: “De Profundis” di un uomo e della società

di Costanza Maugeri
Pubblicato: Ultimo aggiornamento il 22 Min.

Ci insegnano, fin da piccoli, a santificare i grandi autori. Leggerli e renderli, ad ogni parola, irraggiungibili. Mi sono sempre chiesta se questo fosse l’approccio giusto, se loro avessero voluto questo. E, perdonatami la schiettezza, la mia risposta è un no.

Il “De Profundis” di un autore possiamo percepirlo solo se nelle sue parole incontriamo lo sguardo di un uomo, non di un Dio. É una lettera a Lord Alfred Douglas, suo amato, è un testamento, il “De Profundis” di Oscar Wilde (1854 – 1900). L’autore è condannato a due anni di lavori forzati – dal 1895 al 1897- nel carcere inglese di Reading Gaol a causa della sua omosessualità.

Il De Profundis: il testamento letterario di Wilde

Ho avuto modo di leggero qualche settimana fa e l’ho descritto come un’esperienza mistica. Il “De Profundis” di Wilde è un percorso interiore maestoso ed esistenziale che non perde, però, l’intimità con se stesso. E’ l’amico Robert Gross ad intitolarlo così, riprendendo il Salmo 130 della Vulgata della Bibbia. L’autore sceglie, invece: “Epistola: in Carcere et Vinculis”, ma affida il manoscritto all’amico.

Un assai lungo momento è il soffrire.
Noi non possiamo dividerlo per stagioni, ma soltanto
renderci conto de’ suoi modi e calcolarne i ritorni.

Per noi, il tempo stesso non cammina; e sembra piuttosto
descrivere un circolo intorno ad un centro di dolore. La
paralizzatrice immobilità di un’esistenza in cui ogni particolare è regolato da un immutevole dèspota (in modo
che noi mangiamo, beviamo, dormiamo e preghiamo –
o, almeno, c’inginocchiamo per pregare – secondo le
leggi di una formula ferrea); questo carattere statico che
rende, fino nei più piccoli atti, ogni giornata uguale alla
precedente, pare che si comunichi a tutte quelle forze
esterne delle quali l’essenza consiste appunto in un mutamento continuo.

“De Profundis” – Oscar Wilde

Con queste parole lapidarie inizia l’opera. Egli traccia, nelle prime righe, un resoconto della sua vita. È consapevole del suo Genio, ma afferma di avere coscienza di aver sprecato il suo tempo all’insegna del piacere e della ricerca di sensazioni carnali

Il mio rapporto col mio tempo fu più nobile, più costante, d’una importanza e d’un valore più grandi.
Gli dèi m’avevano quasi tutto donato. Ma io mi lasciai poltrire e mi concessi dei lunghi periodi di tregua
insensata e sensuale. Mi divertii a fare l’ozioso, il dandy, l’uomo alla moda.

Mi circondai di poveri caratteri e di spiriti miserevoli. Divenni prodigo del mio proprio genio e provai una gioia bizzarra nello sperperare una giovinezza eterna. Stanco di vivere sulle cime, discesi volontariamente in fondo agli abissi per cercarvi delle sensazioni nuove.

La perversità fu nell’orbita della passione quel che il paradosso era stato per me nella sfera del pensiero.

“De Profundis”: il dolore, un’esperienza essenziale

Ed è qui che si fa strada una matura e intensa riflessione sull’utilità del dolore, un’accettazione meravigliosa della sofferenza. Che è neccessario venga attraversata e sia riempita di senso.

Ecco quasi due anni, tra poco, che io sono in prigione! Da principio una selvaggia disperazione cominciò
ad impossessarsi di me; mi abbandonavo a una pena tale
ch’era disprezzabile anche a vedersi, a un’ira terribile ed
impotente, all’angoscia e all’indignazione, alla tortura
che mi strappava i più acuti singhiozzi, a una miseria
che non aveva nessuna voce per esprimersi, a un dolore
muto.

Sono passato attraverso tutte le forme possibili
della sofferenza. Meglio ancora di Wordsworth, io ben
so ciò ch’egli intese di dire in quel suo distico:
«La sofferenza è costante e oscura e misteriosa,
e ha la natura dell’Infinito.»
Ma quando, talvolta, io mi rallegro all’idea che le mie
sarebbero interminabili, non potevo, però, sopportare
ch’esse fossero prive di significato.

Ora, io trovo riposta in un oscuro angolo della mia natura qualcosa che mi dice: nulla c’è al mondo che sia vuoto di senso ed il soffrire meno di qualunque altra cosa. Questo quid, nascosto nel più profondo del mio «io», come un tesoro in un campo, è l’Umiltà.

L’Umiltà, quindi, diventa la chiave per fare della pena un’occasione d’introspezione essenziale ed esistenziale.

È l’unica cosa che ha in sè i germi della vita, di una nuova esistenza, una Vita Nuova per me. Tra tutte le cose,
essa è la più strana; non si può acquistarla che a patto di rinunciare a tutto ciò che si possiede. E, solamente
quando si è tutto perduto, ci si accorge di averla guadagnata.
Ora che ho capito ch’essa è in me, io vedo assai chiaramente ciò che in realtà occorre che io faccia. E allorché adopero una frase come questa, non ho bisogno di aggiungere che non alludo a nessuna sanzione, a nessun ordine imperativo dal di fuori.

Io non ne ammetto. Sono molto più individualista di quanto lo sia mai stato. Niente mi sembra che abbia il minimo valore, tranne ciò che si estrae dalla propria intimità. La mia indole è in traccia d’un nuovo mezzo di realizzazione: ecco tutto ciò di cui io devo preoccuparmi.

E la prima cosa che mi occorre è questa: liberarmi di qualsiasi risentimento amaro contro
il mondo.
Io sono completamente senza denaro, assolutamente senza focolare. Eppure c’è qualcosa di peggio, sulla terra. Sono del tutto sincero quando affermo che, piuttosto che lasciare questo carcere conservando nel mio cuore dell’amarezza contro il mondo, preferirei di mendicare con gioia il mio tozzo di pane di porta in porta.

Se non ottengo nulla dal ricco, riceverò pur qualche cosa dal povero.

Coloro che molto posseggono sono di solito avari; ma quelli che hanno ben poco lo dividono volentieri. Non mi farebbe nessun caso il dormire sulla fresca erba in estate e, al sopraggiungere dell’inverno, ripararmi al caldo in un mucchio di fieno o sotto la tettoia di una capanna, purchè avessi sempre dell’amore dentro il mio cuore.

Le cose esterne della vita mi pare ora che
non abbiano più alcun valore.

L’arte: un motivo di riflessione profonda

Nel “De Profundis” di Wilde trova spazio, inoltre, una riflessione sull’arte. Il padre dell’estetismo non si fa sfuggire questa occasione:

La verità, in arte, non consiste in una corrispondenza tra l’idea madre e l’esistenza accidentale; essa non è la identità della forma con l’ombra o della forma riflessa dal cristallo con la forma stessa; non è l’eco rinviata dall’anfratto d’una collina – così come non è, nella valle, una sorgente d’acqua argentata che mostra la luna alla luna e Narciso a Narciso.

La verità in arte è l’unità d’una cosa con sè stessa, è l’esteriore come diretta emanazione dell’interiore; è l’anima connaturata con la carne e il corpo con lo spirito.

Per questa ragione non esiste nessuna verità che sia comparabile al dolore.
Ci sono alcuni momenti in cui il dolore sembra divenire la Verità Unica.

Romanticismo: l’artista e Gesù Cristo

De profundis
Crediti: Pinterest

A una trentina di pagine dalla metà esatta dell’opera, il pensiero esplode ed inizia un lungo parallelismo tra l’artista e la figura di Cristo.

E’ essenziale affermare che Wilde non si può dire un uomo religioso, anzi, è egli stesso a dichiarare che crede in ciò che è possibile toccare. Avanza, inoltre, la proposta di creare un Ordine Monastico parecchio eterodosso.

La religione non mi aiuta. La fede che altri nutrono
per ciò che è invisibile io la dedico a quel che si può
toccare e osservare.

I miei dèi abitano nei templi costruiti dalla mano dell’uomo ed è solo nell’ambito dell’esperienza reale che la mia fede si definisce e si completa; essa è troppo integra, forse, perchè, come molti di coloro o tutti coloro che hanno collocato il loro cielo sopra la terra, io vi ho scoperto non pure la bellezza del paradiso, ma anche dell’inferno.

Quando penso alla religione, sento che mi piacerebbe fondare un ordine monastico per coloro che non possono credere: si dovrebbe chiamare la Congrega degli Infelici e nei suoi riti, davanti a un altare, privo di qualsiasi fiamma di ceri, un prete senza pace nel cuore, celebrerebbe l’officio con del pane profano o un calice vuoto.

Ogni cosa, per essere vera, deve diventare una religione, e l’agnosticismo, come una qualunque altra religione, dovrebbe avere le sue cerimonie.

Ma nel Messia, è innegabile, percepisce una forza prorompente che non può essere ignorata.

Io vedo un vincolo molto più intimo ed immediato tra la vera vita di Cristo e la vera vita dell’artista e provo un
grande piacere pensando che, assai tempo prima d’essere dominato e legato al carro del dolore, io avevo scritto,
nell’Anima dell’Uomo, che colui il quale volesse condurre una vita simile a quella di Cristo dovrebbe essere interamente e assolutamente sè stesso e avevo preso come esempi non solo il pastore sulla montagna e il prigioniero nella sua cella, ma sì anche il pittore per cui il mondo è una festa di colori e il poeta pel quale l’universo intero è un canto. (…).

Mi rammento, una volta che si discuteva in Cristo può essere trasportato immediatamente nella sfera dell’arte e trovarvi la propria espressione integrale.

Non solo noi possiamo notare in Cristo quel vincolo intimo della personalità con la perfezione in cui consiste la vera differenza tra il movimento classico e il romantico nella vita; ma è un fatto che la sua stessa natura era identica a quella dell’artista – una immaginazione intensa come una fiamma.

Egli ebbe nel campo dei rapporti umani quella tale simpatia immaginativa che, nel dominio dell’arte, forma il segreto unico della creazione.
Comprese la lebbra del lebbroso, la tenebra del cieco, la crudele miseria di coloro che vivono non cercando altro
che il piacere, la strana povertà del ricco.

Qualcuno mi ha scritto, durante il periodo più acuto delle mie angosce «Caduto dal vostro piedestallo, non siete più interessante». Oh, quanto egli era lontano, dicendo questo, dal «segreto di Gesù»! – per adoperare una espressione
di Matteo Arnold.

L’uno e l’altro gli avrebbero potuto insegnare che ciò che succede ad un uomo succede ugualmente a voi.

Se volete una massima da leggere dall’alba alla notte, nelle ore di gioia e nelle ore di tristezza, incidete sulle pareti della vostra casa queste lettere (che saranno dorate dal sole, inargentate dalla luna): «Tutto quel che capita a me stesso, capiterà anche ad altri».
Senza dubbio, Cristo va collocato assieme con i poeti.
La sua concezione dell’Umanità era una risultante diretta della sola immaginazione – che può comprenderla.
Egli considerò l’uomo come il panteista aveva considerato Dio. Fu il primo a concepire l’unità delle razze divise.

Affascinante è l’identità tra l’artista romantico e Gesù. Wilde scorge in Cristo una carisma innovativo senza eguali.

Io vedo in Cristo non solo il principio essenziale del supremo tipo romantico, ma anche tutte le contingenze e le stesse perversità del temperamento romantico.

Egli fu il primo a dire agli uomini di vivere come i fiori e ha fissato sempre la frase. Cristo prese i fanciulli come tipo e modello per le aspirazioni umane.
Li propose come esempio ai loro genitori – cosa che io ho sempre pensato, se è vero che si deve giovarsi di ciò
che è perfetto.

Le ultime parole: una rinuncia definitiva

Le ultime parole chiudono il cerchio. Se, nelle prime frasi, Wilde analizza la sua esistenza in società, sul finale vi è la consapevolezza che per lui essa non ha più un posto da offrire. Rinuncia ad essa e dichiara amore alla Natura.

Certo, per uno spirito moderno come me, «figlio del
mio tempo» contemplare semplicemente il mondo sarà sempre una delizia.

Tremo di piacere, pensando che il giorno in cui sarò libero il citiso ed i lillà fioriranno nei giardini ed io vedrò il vento agitare, con una rabbrividente bellezza, l’oro dell’uno e la pallida porpora dell’altro, in modo che la terra avrà per me tutti i profumi d’Arabia.

Linneo cadde in ginocchio e pianse di felicità, quando vide per la prima volta le estese brughiere d’un altipiano inglese tutte gialle dei fiori agresti e aromatici dei giunchi, ed io so che per me, posseduto dallo stesso desiderio dei fiori, ci son delle lagrime che m’aspettano nei petali d’una rosa.

È sempre stato così, sino dalla mia infanzia.

Non c’è una sola sfumatura nascosta in fondo
al calice d’un fiore, non c’è la curva e molle linea d’una
conchiglia cui la mia anima – per una misteriosa e sottile simpatia con l’anima delle cose – non faccia eco.
Come Teofilo Gauthier io son uno di quelli pei quali il
mondo esterno esiste.
Pur tuttavia, ora ho coscienza che sotto tutta questa bellezza, per quanto soddisfacente essa sia, c’è qualche
spirito nascosto le cui forme e i cui contorni dipinti non sono che pure manifestazioni ed è con questo spirito
ch’io voglio mettermi in armonia.

Sono stanco delle formule fisse degli uomini e delle cose. Il Mistico nell’Arte, il Mistico nella Vita, il Mistico nella Natura – ecco ciò che io cerco. Ho assolutamente bisogno di trovarlo in qualche luogo.
Ogni volta che si subisce un giudizio, tutta la vita vien giudicata – come tutte le sentenze sono delle sentenze di morte; ed io sono stato ben tre volte in giudizio!
La prima volta, lasciai la sala per essere arrestato; la seconda, per essere ricondotto al carcere di detenzione; la
terza, per venir cacciato in galera per due anni.

La società, come noi l’abbiamo costituita, non avrà più alcun posto da offrirmi; ma la Natura le cui sottili pioggie cadono dolcemente sui giusti e sugli ingiusti avrà nelle sue roccie delle fessure dentro cui mi nasconderò e delle
valli inesplorate nel silenzio delle quali potrò piangere
senza essere distratto!
Essa appenderà delle stelle alle pareti della notte, affinché io possa camminare senza inciampi in mezzo alle
tenebre, e manderà il vento a soffiare sull’orma de’ miei
passi, in modo che nessuno mi dìa una caccia a morte; la
natura mi laverà nelle sue grandi acque e mi risanerà
con le sue erbe amare.

L’estetismo: la rinuncia ai valori sociali

Oscar Wilde

Scopriamo, prima di tutto, il significato enciclopedico di “estetismo”.

Propriamente, atteggiamento del gusto e del pensiero che, in quanto pone i valori estetici al vertice della vita spirituale, considera la vita stessa come ricerca e culto del bello, come creazione artistica dell’individuo. Si tratta di un atteggiamento che sotto vari nomi ricorre nelle epoche più diverse, ma che come formulazione e applicazione coerente di una poetica rappresenta un tardo prodotto del Romanticismo, manifestatosi nella seconda metà dell’Ottocento, anzitutto in Inghilterra, con il ‘primitivismo’ di D.G. Rossetti, e più con J. Ruskin, W. Pater, O. Wilde; e poi negli altri paesi europei. 

Enciclopedia Treccani

A questa definizione si lega il motto degli esteti: “l’arte per l’arte“. Ma cosa significano queste parole? Partiamo dal presupposto che l’estetismo si pone come una corrente ribelle nei confronti dei valori sociali borghesi e vittoriani. Se ad essere rinnegato, quindi, è tutto il complesso di regole e dogmi; la bellezza, il piacere estetico si pongono come valori supremi e gli unici ai quali l’arte deve rispondere.

L’arte trova la propria perfezione in se stessa e non al di fuori. Non può essere giudicata alla stregua di un criterio esterno di simiglianza. Essa è un velo piuttosto che uno specchio.

Ha fiori che nessuna foresta conosce, uccelli che nessuna selva alberga. Crea e distrugge i mondi e può tirare la luna giù dal cielo con un filo di scarlatto.

Sono sue le “forme più vere che il vero”, suoi i grandi archetipi dei quali le cose esistenti non ci sembrano che copie imperfette. Per essa la natura non ha leggi, non ha uniformità.

L’arte può operare miracoli a volontà, e quando chiama i mostri dalle profondità, essi vengono. Può far fiorire il mandorlo d’inverno e coprire di neve le messi mature.

A un suo comando la brina posa il dito argenteo sulle labbra ardenti del giugno, ed i leoni alati escono cauti dalle tane delle colline della Lidia, le driadi spiano dalla macchia quando essa passa, e i bruni fauni sorridono stranamente quando essa si avvicina. E’ adorata da deità dalla faccia di falco, e i centauri galoppano al suo fianco.

Oscar Wilde

Oscar Wilde – l’esteta e il Dandy inglese per eccellenza – non mira, quindi, ad essere un esempio di moralità, ma nella sua stravaganza esteriore ed intellettuale, si pone come il risultato più estremo dell’individualismo e di un atteggiamento ironicamente distaccato dalla società.

E’ cosi che l’estetismo si pone come una corrente decadente e rifiuta l’atteggiamento positivista che vede la società come un organismo in perenne progresso.

La società e l’uomo: un amore colpevole

Wilde e Douglas
Douglas e Wilde

Ricordo che la mia professoressa di filosofia del liceo ci chiedeva sempre:

meglio seguire se stessi e ignorare la società o assecondare la società, ma ignorare se stessi? In ogni caso ,diceva, saremmo infelici.

Ricordo l’angoscia che quell’interrogativo mi provocava. Contrastava con la sua voce ferma e riflessiva.

Credo che rispondere sia facile, è facile solo se -e dico solo- ci coprissimo gli occhi con entrambe le mani e facessimo finta che la società non esista. Ma lei esiste, lei condanna e non perdona.

Wilde amava un uomo, si, amava Lord Alfred Douglas. Oscar e Alfred si amavano dal 1891. Provava le farfalle nello stomaco quando lo baciava. Ma questo alla società non è mai andato bene e le farfalle le ha uccise, per secoli, nelle celle e nel silenzio della vergogna.

Leggiamo, a volte, che Lord Alfred Douglas e Oscar Wilde erano amici. Quante ne abbiamo lette di narrazioni come queste?

Ma la verità è che i due si dedicavano lettere e poesie d’amore e io non sono mai stato il tipo di persona che ama dare etichette ai sentimenti, ma credo che sia giusto dare alle cose i propri nomi.

Tendo le mie mani a te. Possa io vivere per toccare le tue mani e i tuoi capelli. Penso che il tuo amore vigilerà sulla mia vita. Se dovessi morire voglio che tu viva una vita serena da qualche parte, circondato da fiori, libri, dipinti e tanto lavoro.
Cerca di farti sentire presto. Ti sto scrivendo questa lettera in mezzo a una grande sofferenza; questa lunghissima giornata in tribunale mi ha reso esausto.
Carissimo ragazzo, dolcissimo fra tutti gli uomini, il più amato e adorabile. Oh aspettami! Aspettami!
Sono ora, come sempre da quando ci siamo incontrati, con eterno amore devotamente tuo”,
Oscar.

Oscar Wilde in una lettera a Lord Alfred Douglas

L’amore è… ciò che senti

A principio dell’articolo ho detto – sbagliando – che Wilde ha scritto il “De Profundis” nei due anni che ha trascorso in carcere per omosessualità.

La verità è questa: Wilde non è stato condannato perchè omosessuale, ma perchè la società due persone dello stesso sesso che si amano non le ha mai accettate – ieri più di oggi. Ebbene, no, non sono due modi diversi di esprimere la stessa cosa. Possiamo dire che un uomo è stato condannato per omicidio perchè la causa della pena sta nella sua azione, ma nel momento in cui parliamo di condanna per orientamento sessuale, abbiamo il dovere di ricercare la responsabilità all’esterno.

Abbiamo il dovere di farlo perchè le parole hanno forza, una forza che si propaga anche dopo averle scritte o pronunciate.

E’ essenziale, quindi, comprendere che quella società contro cui puntiamo il dito siamo noi e solo noi possiamo fare qualcosa per cambiarla e io partirei proprio dalla narrazione che di essa si fa.

L’amore che non osa pronunciare il suo nome in questo secolo è un grande affetto di un uomo anziano verso un giovane, come quello di David per Gionata

Wilde durante il processo

Partiamo proprio da lì: “l’amore è” e rivendichiamo il diritto di completare, come meglio sentiamo, la frase.


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