SaturDie Ep.26 – Il delitto di Via Carlo Poma

di Gaia Vetrano
25 Min.

SaturDie Ep.26 – Il delitto di Via Carlo Poma

Riguardo il delitto di Via Carlo Poma, ancora oggi rimangono più dubbi che certezze.

Un insieme di tasselli che non trova ordine preciso, o che tantomeno riusciamo a riordinare. Angoli che non combaciano e indizi che non portano da nessuna parte.

Il quartiere di Prati è da sempre il punto di ritrovo preferito di professionisti, avvocati, commercialisti e non solo. L’elegante palazzina di Via Carlo Poma è solo una delle tante piena di studi dove questi lavorano o dove abitano famiglie per bene.

Eppure, il 7 agosto del 1990 iniziano a svuotarsi. Tutti preferiscono andare al mare, o in vacanza in qualche metà esotica. Così per i corridoi regna il silenzio, non tipico della desolazione, ma ricco di gioia perché sinonimo di estate. È un complesso molto ampio quello del numero civico 2, che già a partire dalle prime ore del tramonto si svuota in fretta.

D’altro canto non è facile trovare qualcuno che il 7 agosto preferisca fare ore straordinarie a lavoro piuttosto che uscire per godersi l’aria fresca e i bagliori del sole.

Eppure, quella sera, passate le 23, in Via Carlo Poma non vi è quel solito silenzio.

Un gruppo di persone si presenta infatti al numero 2 dritti verso la casa del portiere. Questi vogliono parlare con quest’ultimo o con qualcuno che li possa portare verso gli uffici dell’Associazione Italiana Alberghi della Gioventù. Questi si trovano nella palazzina B, al terzo piano.

Via Carlo Poma

Quando riescono a parlare con la moglie dell’usciere, vanno di fretta e sono molto preoccupati. Riescono a dare delle spiegazioni poco chiare, ma parlano di una loro amica che non è ancora tornata a casa e non riescono a trovarla da nessun’altra parte.

Eppure la portiera dello stabile, Giuseppa De Luca, sembra non capire. Al contrario, è seccata e infastidita per l’orario. Prima dice di non avere le chiavi, poi che nessuno può salire su. Alla fine però cede, sotto le insistenze del gruppo, e li accompagna verso gli uffici.

Arrivati davanti la porta continua a ribadire come tutto sia apposto. La serratura è anche chiusa a quattro mandate, nessuno può essere entrato o essere rimasto dentro.

Una porta chiusa a quattro mandate non dovrebbe suscitare sospetti.

Come la portiera aveva più volte ribadito, l’ufficio è deserto. Luci spente, finestre serrate. Solo il rumore del condizionatore acceso e un computer. Però della famosa ragazza non c’è traccia. Resta solo un’ultima stanza, quella del direttore in ferie.

Il primo a entrare è Salvatore Volponi, datore di lavoro della scomparsa. Lo segue Antonello, il fidanzato della sorella. Ciò che videro rimarrà per sempre impresso nelle loro menti.

Appena accesero le luci per terra notarono un corpo martoriato. È quello di una ventenne. Supina, con le gambe e le braccia aperte. La testa reclinata su una spalla. Addosso le restano dei calzini bianchi, una maglietta arrotolata sul ventre, e un reggiseno di pizzo abbassato, tale da lasciarle i seni scoperti. Le scarpe slacciate e poste poco lontano una accanto all’altra.

Intorno al corpo e sulle calzature non una goccia di sangue.

29 coltellate sono state necessarie per portare via la vita a Simonetta Cesaroni.

Sul viso lividi e ferite. Sul corpo scie di sangue. Le ferite inferte al cuore, alla carotide, alla giugulare, al ventre e al pube. Una puntualità nel colpire da determinare un impeto e una rabbia fuori dalla norma.

I segni di una violenza che non verranno mai puniti.

Giornale riguardo il delitto di via Carlo Poma

Un intreccio di perché

Ciò che gli inquirenti capiscono sin da subito è che ci sono molti perché da sciogliere.

Innanzitutto non sembrava che quell’appartamento potesse essere lo scenario di un delitto così atroce. Non una goccia di sangue nelle componenti d’arredo, sulle pareti o sul pavimento. C’erano delle striature e degli stracci, che magari potevano essere stati usati per pulire. Ma non contengono alcuna traccia.

Solo un segno sulla porta della camera. Toccherà alla scientifica analizzarla.

Simonetta Cesaroni, vittima del delitto di via Carlo Poma

Dalla borsetta di Simonetta mancano le chiavi dell’ufficio e non c’è alcun segno di effrazione. Che senso ha chiudere a chiave una porta dopo un omicidio? Forse l’assassino voleva assicurarsi che nessun’altro potesse entrare dopo di lui?

Altre tracce ematiche vengono ritrovate fuori dall’ufficio, sul pulsante dell’ascensore e sul vetrino. Per quale motivo l’assassino, per fuggire dal luogo del delitto, avrebbe preferito l’ascensore alle scale? Per evitare sforzi?

Inoltre, nulla lascia pensare che Simonetta si sia opposta al suo aggressore. Nessuna traccia di lotta fisica o di resistenza. La Cesaroni non si è ribellata, forse perché del suo killer si fidava.

I primi interrogati sono il portiere Pietrino Vanacore e sua moglie Giuseppa. Questi ripetono che in quel palazzo vivono solo persone per bene, nessuno di loro avrebbe mai potuto compiere un omicidio.

Nessuno si sporcherebbe le mani in quel modo.

Entrambi concordano sul fatto che non sia stato visto nessun estraneo entrare o uscire dallo stabile. E nessuno ha sentito grida provenire dalla palazzina b.

Simonetta presenta una frattura cranica. La prima ipotesi è che quindi l’assassino l’abbia stordita e solo dopo l’abbia pugnalata con 29 coltellate. Per qualcuno le avrebbe dato un colpo sulla tempia, per qualcun altro le avrebbe ficcato le ginocchia sulla schiena. Poi le 29 coltellate, susseguitesi senza interruzione.

Le ferite sono strette e tondeggianti, ciò fa pensare che l’arma usata sia stato un tagliacarte. In effetti in una stanza vicina al luogo del delitto ne viene trovato uno.

Una cosa però lascia gli inquirenti ancor di più basiti. Probabilmente, non c’è stata alcuna violenza sessuale. Mancava liquido seminale. Per gli psicologi, il killer potrebbe soffrire di impotenza, e avrebbe quindi usato il tagliacarte sul pube come sostituto del suo apparato genitale.

Accanto al corpo viene ritrovato un foglietto, con scritto “CE” e disegnato un pupazzetto a forma di margherita con in basso a destra scritto “DEAD OK”.

Mancano il portafogli della vittima e poi una maglia a righe, una calzamaglia, tutti i gioielli in oro e le mutandine. Il macabro trofeo di un omicidio costituito da centinaia di perché.

Chi era Simonetta Cesaroni?

Passate ventiquattro ore gli inquirenti iniziano a indagare riguardo la vita di Simonetta e sul perché quella sera si trovasse ancora in Via Carlo Poma.

Chi era? Quali segreti nascondeva la sua vita? Chi poteva odiarla a tal punto da commettere un omicidio così tanto brutale?

Carlo Poma

Simonetta Cesaroni vive in un quartiere popolare, nel quartiere Don Bosco, zona Lamaro, con i suoi genitori e sua sorella Paola. Ha ventun anni e nella vita studia. Come tutte le ragazze della sua età ha tanti sogni nel cassetto e il desiderio di diventare indipendente. Una famiglia tranquilla che conduce una vita normale. Simonetta lavora nella Reli Sas, una ditta di revisioni contabili, tra cui clienti vi era anche l’Associazione Italiana Alberghi della Gioventù.

Uno dei titolari si chiama Salvatore Volponi.

Simonetta viene incaricata da quest’ultimo per andare a lavorare come computerista dell’A.I.A.G, per curare quindi alcune pratiche contabili. Due pomeriggi a settimana si reca quindi in via Carlo Poma la sera sul tardi. Quando gli altri dipendenti andavano via lei raccoglieva i dati e svolgeva il suo lavoro.

In prossimità dell’estate, quelle poche ore impiegate le davano la possibilità di raccogliere qualche soldo in più. Perché Simonetta, come tutte le giovani della sua età, ama andare a ballare o uscire la sera. È bella, ha tanti interessi, tra cui il cinema.

Al suo fianco Raniero Busco, venticinquenne che lavora negli hangar di Roma Fiumicino. Ne suoi confronti Simonetta prova una forte passione, sentimento non condiviso da Raniero, che la vede come una semplice frequentazione. Un rapporto un po’ instabile quello tra i due. Potrebbe essere questa una possibile pista? Il delitto passionale?

Più di un delitto passionale

Busco ha un alibi. Tutto il pomeriggio del 7 agosto lo ha passato sistemando l’auto del fratello in cortile, e diversi testimoni hanno confermato di averlo visto. Più tardi era salito in casa per farsi una doccia e cenare con la madre. Poi si sarebbe recato a lavoro a Ciampino.

A 48 ore dalla morte di Simonetta viene fermato Pietrino Vanacore, il portiere dello stabile. Cinquantottenne originario di Taranto, gestisce con la moglie l’edificio e si occupa non solo della portineria. Di Via Carlo Poma 2 possiede le chiavi di ogni ufficio perché si occupava di dare l’acqua alle piante, fare le commissioni, ogni tanto addirittura andava a dormire a casa dell’anziano Cesare Valle, per non lasciarlo solo, al quinto piano.

Per tutti è il custode della privacy e della tranquillità del complesso, un uomo che gode di stima. Perché viene trasferito in carcere?

Uno dei principali sospettati del delitto di via Carlo Poma
Pietrino Vanacore

Interrogato al Regina Coeli si mostra poco collaborativo o disponibile, e ciò insospettisce ancora di più gli inquirenti. L’idea che si crea è poco positiva, così gli inquirenti cercano di riordinare le poche informazioni che hanno su di lui.

Secondo le prime ricostruzioni, Simonetta è stata uccisa tra le 17.30 e le 18. A stabilire questo orario non è solo il medico legale: la Cesaroni alle 17:35 avrebbe infatti telefonato a un’amica, Luigia Berrettini, per un problema al computer. Alle 18:20 avrebbe poi dovuto chiamare il datore di lavoro per comunicargli di aver terminato il lavoro, ma Volponi non ricevette alcuna chiamata.

Evidentemente, intorno alle 18:20, Simonetta ha già incontrato il suo assassino.

Questo potrebbe essere proprio Vanacore. Stando alle sue parole, quel pomeriggio avrebbe dato l’acqua a delle piante, sarebbe andato dal fisioterapista a farsi fare un massaggio, e poi avrebbe preso un caffè a un bar. Intorno alle 18:30, Pietrino è nuovamente nel cortile del palazzo, dove lo vedono più condomini.

Poi c’è un particolare: la scena del delitto è stata ripulita perfettamente. Un lavoro così meticoloso da sembrare essere stato compiuto da una persona in particolare. Uno come Pietrino.

Infine, dalle ricostruzioni dei suoi movimenti, si scopre che alle 23 Vanacore non è nel suo appartamento. Quando i soccorritori arrivano non era in guardiola, e neanche insieme a Cesare Valle.

Un ultimo dettaglio incastrerebbe il portiere: i pantaloni che aveva indosso il 7 agosto presentano due macchie, una di ruggine, l’altra di sangue. Pietrino disse di soffrire di emorroidi, quindi quello avrebbe potuto essere il suo sangue, ma se invece fosse proprio quello di Simonetta?

Ma perché commettere quel delitto? Si ipotizza che Pietrino si fosse invaghito della Cesaroni. Questa avrebbe rifiutato le sue avances e allora Vanacore, preso dalla rabbia, avrebbe commesso l’omicidio. Non sarebbe la prima volta che l’uomo viene accusato di violenze sessuali. Nonostante tutto l’uomo si dichiara innocente.

Nel frattempo, Giuseppa De Luca, la moglie di Pietrino, confessa agli inquirenti nuovi dettagli. Dichiara infatti di essersi ricordata di aver visto quel pomeriggio un uomo passare di lì. Questo portava in mano un sacchetto, che poteva possibilmente contenere gli abiti di Simonetta. Inoltre, zoppica, proprio come il collega di un architetto che ha lo studio in via Poma. Ma la strada non porta a nulla.

La donna ha davvero visto qualcuno o mente per coprire il marito?

Dalle analisi, le tracce di sangue sui suoi pantaloni appartengono al gruppo sanguigno 0 RH+, come quello di Simonetta. E anche come quello di Vanacore. Si passa all’esame del DNA e ci si aspetta di trovare dei risultati che possano definitivamente comprovare la sua colpevolezza.

Ma il 29 agosto arrivano delle notizie inaspettate: i segni ematici sono misti a dei residui fecali. Come aveva detto Vanacore, quello non è il sangue di Simonetta, ma il suo.

Il mistero del computer

Ordinata la scarcerazione di Vanacore, per il delitto di Via Poma si ricomincia da zero.

L’opinione pubblica si scaglia immediatamente contro il modo in cui sono state gestite le indagini. Sulla scena del crimine si recano troppe persone ancor prima l’arrivo delle Forze dell’Ordine, che inquinano la scena del crimine. Non è tutto: la polizia non ha perquisito tutti gli appartamenti del palazzo. Chi può escludere che l’assassino fosse nascosto in uno di questi?

Poi c’è chi accusa la lentezza degli inquirenti. La scientifica ci mette venti giorni per compiere l’autopsia e analizzare il computer di Simonetta. Questo avrebbe lavorato fino alle 10:49. Se così fosse, chi lo avrebbe usato? Molto probabilmente il suo assassino, e questo cambia anche il movente. Magari Simonetta, lavorando ai conti dell’A.I.A.G avrebbe scoperto qualcosa di strano.

Una pista sostenuta anche dalla famiglia di Simonetta, che punta il dito contro Volponi, il suo datore di lavoro. Di questo vengono denunciate alcune stranezze. In particolare, dichiara di non sapere niente di chi lavorasse negli uffici di Via Carlo Poma e non conoscere neanche il numero di telefono. Paola Cesaroni, però, lo accusa di aver mentito: la sera dell’omicidio di mostra, infatti, di muoversi con dimestichezza dentro gli uffici, trovando per primo il corpo della donna.

Non solo, Paola racconta che la sorella, Simonetta, le aveva detto che quella sera Volponi l’avrebbe raggiunta in Via Carlo Poma. Infine, Giuseppa, la moglie del portiere, racconta di averlo visto più volte in quel condominio.

Perché Volponi avrebbe mentito?

C’è dell’altro. Il sangue sulla porta degli uffici è del gruppo A Rh+. Non è quindi di Simonetta, e neanche di Vanacore. Potrebbe essere di Volponi che, mancato fornisca un alibi valido, la sera del 25 settembre viene indicato come principale sospettato.

Per l’uomo è un shock, a tal punto da denunciare alla polizia un clima da caccia alle streghe nei suoi confronti. Denuncia una gogna mediatica. Alla fine, sarà anche lui scarcerato. Non è suo il sangue sulla porta, appartenendo al gruppo 0 Rh+.

L’inchiesta procede a colpi di prelievi sanguigni.

La svolta di Voller

A due mesi dall’omicidio gli inquirenti sottopongono ad analisi tutte le persone che potrebbero essere coinvolte, a partire da Paola Cesaroni. Il fidanzato di quest’ultima, Raniero Busco, il figlio di Vanacore, i dipendenti degli A.I.A.G. Chi ha ucciso Simonetta?

La svolta arriva alla fine del 1991. Roland Voller, un commerciante di auto austriaco, si reca negli uffici della Polizia, sostenendo di sapere chi sia l’assassino. Questo accusa un certo Federico Valle, nipote dell’ingegnere Cesare Valle, uomo da cui Vanacore va a dormire e a cui fa da badante.

Un ragazzo con un passato complesso, a causa del divorzio dei genitori, che cerca conforto nel nonno. Si reca quindi spesso in via Poma, ma per quale motivo avrebbe dovuto uccidere Simonetta?

Voller racconta una storia incredibile. Il 7 agosto avrebbe ricevuto una chiamata da Giuliana Ferrara, la mamma di Federico. Questa le avrebbe detto che il figlio era tornato a casa più nervoso del solito, e gli abiti che indossava sembravano essere stati lavati da poco, e gli interni della sua auto erano stranamente puliti.

Il giovane, anche dopo il delitto, continua a recarsi in Via Carlo Poma. Lì non scende dall’auto, ma rimane al suo interno a osservare il condominio.

Questo insospettisce gli inquirenti, ma manca il movente.

Per Voller avrebbe agito per gelosia. Il padre, Raniero Valle, si sapeva avesse una relazione con una donna molto più giovane. Anche lui lavorava in Via Carlo Poma. Magari, questa era proprio Simonetta. Questa potrebbe quindi essere una delle giovani per cui avrebbe mollato Giuliana, la moglie. Federico, quindi, in preda a un raptus di rabbia e follia, la uccide.

Può darsi, però, che Federico abbia sentito Simonetta parlare al telefono con il suo fidanzato, che ricordiamo si chiama Raniero. Valle avrebbe quindi confuso la situazione, confondendo Raniero Busco con il padre. Ma queste rimangono ipotesi perchè nulla collega Federico Valle a Simonetta.

Il ragazzo riporta però una cicatrice sul braccio destro, che dichiara essere una bruciatura, e inoltre anche lui conosceva bene il condominio di Via Poma, frequentandolo spesso per andare a trovare il nonno. Poteva quindi conoscere bene quali via di fuga usare.

Federico Valle viene sottoposto ad analisi cliniche e nel 1992 viene scagionato. L’unica macchia di sangue trovata sulla scena del crimine, che poteva corrispondere a una mescolanza tra quello di Simonetta e quello di Valle, appartiene solo alla donna.

Nulla che coinvolga anche Valle.

L’ipotesi della Magliana e dei servizi segreti

Il PM Pietro Catalani continua però a sostenere che possa essere coinvolto, e suppone che abbia avuto un complice, ossia Vanacore. Quest’ultimo lo avrebbe aiutato a far sparire le tracce dalla scena del delitto, e ciò spiegherebbe perché non ci sono segni ematici da nessuna parte.

Pietrino Vanacore continua infatti a non convincere gli inquirenti.

Nel frattempo, alle forze dell’ordine viene recapitata una missiva in cui gli viene suggerito di analizzare il computer. Simonetta, infatti, avrebbe potuto aver accesso a dei servizi quali Videotel, che consentono di comunicare in rete con altri utenti. Avrebbe così potuto conoscere il suo assassino.

Qualcuno racconta di averla proprio incontrata online con il nickname Veronica. Qualcun altro che lei avrebbe parlato con qualcuno che si firmava come Dead. Ma la pista si rivelò infondata perché il computer di Simonetta non dava l’opportunità di accedere a Videotel.

L’arrivo di Roland Voller nelle indagini causò un’ulteriore confusione, in quanto si incominciò a supporre questo lavorasse per i servizi segreti italiani, in quanto in possesso di alcuni documenti riguardo il delitto dell’Olgiata.

Secondo un’altra ipotesi, invece, il delitto si collegherebbe a presunte operazioni illecite che, nel corso dei primi anni novanta, sarebbero state compiute da alcuni soggetti appartenenti ai servizi segreti nell’ambito della cooperazione allo sviluppo e in particolare in Somalia. Simonetta Cesaroni avrebbe lavorato per conto di alcune società al di fuori della sua normale professione. Non vi furono però sufficienti prove.

Qualsiasi delitto verificatosi a Roma negli anni Novanta che si rispetti deve essere per forza collegato con la banda della Magliana. Simonetta avrebbe infatti scoperto, lavorando per l’A.I.A.G., delle prove che collegavano la suddetta ditta con enti edili a favore della Banda della Magliana con il benestare del Vaticano. Dato il sospetto avvicinamento anche di Roland, l’ipotesi venne considerata inizialmente veritiera, ma venne poi abbandonata perché non fu mai trovato alcun documento compatibile.

Per mancanza di indizi Federico Valle verrà prosciolto. D’altro canto, il ragazzo il 7 agosto era in casa, dove ci è rimasto tutto il pomeriggio, come testimonia la vicina di casa Annamaria.

 Nel 2004 il delitto di Via Poma è uno degli esempi dell’inefficienza investigativa italiana.

Il RIS trova, tramite alcune analisi, delle tracce di sangue nei lavatoi del palazzo, luogo ignorato nell’indagine, che si trova al quinto piano, accanto l’appartamento di Cesare Valle. Qui l’assassino avrebbe potuto lavare i panni con cui avrebbe pulito la scena del crimine, ma solo i condomini avevano la chiave. Sempre che il sangue sia di Simonetta.

Le tracce però sono insufficienti. Arrivano però trovate delle tracce di DNA nel corpetto della vittima, soprattutto di saliva. Per capire a chi appartiene, il magistrato convoca nuovamente tutte le figure coinvolte nella vicenda. Tra sigarette e bicchieri, solo uno combacia. È il DNA di Raniero Busco.

Nel 2004 ha quarantaquattro anni, si è sposato e ha due figli. L’uomo ribadisce di essere innocente, e avanza l’ipotesi che Simonetta stesse indossando gli stessi indumenti del giorno prima. Eppure un altro indizio sembrerebbe incastrarlo: una microscopica macchia di sangue nella stanza potrebbe contenere il suo DNA. Alla fine, il RIS non riuscirà né a confermare né a negare questa possibilità. Non si sa a chi appartenga. Nuovamente un buco nell’acqua.

Il 26 maggio del 2009 viene richiesto il rinvio al giudizio di Busco. Contro l’uomo ci sarebbe un morso ritrovato sul corpo di Simonetta e una perizia sulla sua arcata dentaria, che durante alcuni processi hanno dimostrato non corrispondere alla ferita.

A 20 anni di distanza dal delittodi via Carlo Poma, il 9 marzo 2010 Vanacore si suicidò gettandosi in mare, vicino a Torricella, dove viveva da anni. Vanacore lasciò una scritta su un cartello: “20 anni di sofferenze e di sospetti ti portano al suicidio”.

Riguardo la morte di Simonetta Cesaroni e il delitto di via Carlo Poma si cerca ancora la verità.

Scritto da Gaia Vetrano


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