L’odio (1995): razzismo e violenza in una Parigi in rivolta

di Emanuele Fornito
12 Min.

Trama

Chanteloup-les-Vignes, metà anni ’90. Tre ventenni, Vinz (Vincent Cassel), Hubert (Hubert Koundé) e Saïd (Saïd Taghmaoui) trascorrono un giorno in una banlieue parigina posta in stato di assedio dalla polizia.

Recensione

Dopo due anni dal suo esordio alla regia con Métisse (1993), il regista Mathieu Kassovitz arriva sui grandi schermi francesi del ’95 con un film dal forte sentimento sociale, un sentimento tanto forte da aver destato controversie nonostante all’uscita La Haine (titolo originale del film), fosse stato accolto calorosamente dalla critica e dal pubblico, a tal punto che il film valse al regista il Prix de la mise en scène (miglior regia) al Festival di Cannes, oltre che tre Premi César per miglior film, miglior montaggio e miglior produttore. D’altronde, un film di tale portata non poteva che spaccare l’opinione pubblica, tra chi reputava Kassovitz un regista coraggioso e chi, invece, lo accusava di aver creato un film contro la polizia. Esplicativa fu infatti la scelta da parte di numerosi poliziotti di voltarsi per tutta la durata del film durante una proiezione speciale organizzata dall’allora primo ministro francese Alain Juppé.

Tuttavia, è importante comprendere, in situazioni “delicate” come queste, il contesto da cui nasce l’opera. Kassovitz, anche sceneggiatore, inizia a scrivere L’odio il 6 aprile 1993. Se per molti questa data può non ricordare nulla, in realtà racchiude in sé un evento tanto tragico quanto importante: l’uccisione di Makomé M’Bowole, giovane zairiano che, tenuto in custodia dalla polizia poiché sospettato di aver compiuto un furto minore, quel 6 aprile ebbe una pallottola alla testa, sparata dall’agente di polizia Pascal Compain. Nonostante si cercò fin da subito di isolare l’evento definendolo come accidentale, rivolte e scontri furono inevitabili, permeatisi per ben tre giorni durante i quali furono poste sotto assedio le banlieue francesi ritenute più pericolose.

Come spesso accade, lì dove vi sono moti socio-culturali, e lì dove vi sono profonde ingiustizie, lì c’è l’arte. E in Francia, soprattutto, non bisogna stupirsi: da generazioni i cineasti francesi hanno voluto sempre dire la loro sulle ingiustizie compiute dal e nel proprio Paese.

Un frame tratto da “L’odio”

Quando si parla de La Haine, non si può non iniziare dal comparto registico. Kassovitz impronta il film su una regia visivamente spettacolare, coraggiosa, che quasi va a creare una simbiosi tra coraggio tecnico e coraggio della sceneggiatura, raggiungendo, in entrambi i casi, un risultato davvero incredibile. Attraverso giochi di specchi, movimenti di macchina ed inquadrature ambiziosi e piani sequenza negli stretti vicoli dei sobborghi parigini, il regista francese riesce ad unire grandi invenzioni del passato in un connubio che sa tanto di nouvelle vague e cinema wellesiano (tra gli altri). L’erudizione cinefila di Kassovitz tuttavia diventa palese anche ad occhi meno attenti in un tributo che ad oggi sentiamo di definire geniale: in una celebre scena, Vinz si trova davanti allo specchio recitando le battute di un giovane Robert De Niro che, in Taxi Driver (1976), interpreta il controverso personaggio di Trevis Bickle. Definiamo la scena geniale per due motivi: non solo il regista ripropone una delle scene più famose della storia del cinema creando quella che diventerà essa stessa una delle scene più famose della storia del cinema (ora qui sarebbe lecito chiedersi se alla fine il merito non sia della coppia Schrader-Scorsese), ma in un certo senso riesce a far respirare allo spettatore quella che è la cultura dei personaggi: una cultura da strada, ricca di voglia di riscatto sociale, di solitudine. In questo senso bisogna ammettere che Kassovitz debba tanto a Schrader per la creazione del personaggio di Vinz.

Vincent Cassel nell’iconica scena del film

Per quanto riguarda la narrazione, è evidente un’eredità diretta proveniente dalla Francia degli anni ’60, attraverso scelte di montaggio derivanti dalla nouvelle vague e scelte artistiche provenienti invece dalla cultura popolare: degno di nota è infatti l’utilizzo della lingua verlan, parlata soprattutto dalle minoranze etniche delle periferie francesi.

La storia segue, nei suoi 98 minuti, ventiquattr’ore di vita dei tre protagonisti, che incarnano tre archetipi di rivoltosi uguali ed opposti: Vinz è la parte irrazionale, un ragazzo di strada ebreo che, preso dai moti del momento, vuole esercitare un potere anarchico sperimentando sulla sua pelle il sentimento del sovversivismo. È lui che dà moto all’intera storia. Infatti, dopo che un ragazzo locale, Abdel Ichaha, finisce in coma per i pesanti pestaggi dei poliziotti che lo tenevano in custodia, i ragazzi dei sobborghi decidono di rivoltarsi in strada e, nei numerosi scontri, un poliziotto smarrisce la propria pistola di servizio, una .44 Remington Magnum, ritrovata proprio da Vinz che giura di usarla contro un poliziotto nel caso Ichaha non si fosse più risvegliato dal coma. Al polo opposto c’è invece Hubert, razionale e pacifista che, seppur appoggiando la causa, cerca sempre di contenere l’impulsività di Vinz. Infine Saïd, polo neutro del trio che assume il ruolo di “intermediario” tra i due estremi.

Vinz, Saïd e Hubert in una scena del film

In una città praticamente isolata, i tre vagano senza meta, scrutati spesso dalla polizia, quasi come in gabbia. Sono diverse le occasioni in cui però lo spettatore entra in contatto con le realtà criminali della Francia del tempo: prima il fratello di Abdel che cerca di vendicare suo fratello tentando di uccidere un poliziotto, poi gli scontri in strada (per i quali Kassevitz ha voluto utilizzare principalmente filmati reali), per arrivare ad incontri controversi come quello con Snoopy, un cocainomane e spacciatore che costringe i ragazzi a giocare alla Roulette russa, in un clima che precipita rapidamente, o ancora con esponenti della criminalità organizzata francese, oppure con un anziano signore che, in un bagno pubblico, racconta ai tre una cruda storia sulla difficoltà e sul peso delle scelte nella vita. Appena tornati in strada Saïd e Hubert vengono tuttavia inseguiti, arrestati e torturati da poliziotti in borghese, solo perché ritenuti sospetti. Si raggiunge l’apice di quello che fino a quel momento è stato solo raccontato indirettamente: il razzismo della polizia e una sorta di ciclicità d’odio. Attraverso le parole del regista:

I ragazzi aggrediscono i poliziotti, i poliziotti aggrediscono i giovani. Disgraziatamente, i
poliziotti hanno le armi e, quando perdono le staffe, sparano. È un circolo vizioso di odio.
Per fortuna io non sono all’interno di questo circolo e posso mettere una distanza tra me e le
cose che ho visto

Mathieu Kassovitz a L’Unita, 28 maggio 1995

E ancora:

Il razzismo dei poliziotti francesi è
particolare, non si rivolge al colore della pelle, ma è un razzismo di tipo sociale: se sei povero
e proletario, se vivi in un quartiere povero e proletario, bianco o nero o giallo che tu sia, io ti
maltratto, anzi, ti uccido”

Mathieu Kassovitz a La Repubblica, 20 settembre 1995

Un razzismo dettato da un’appartenenza sociale più che etnica, un razzismo quindi culturale, basato su discriminazioni provenienti dalle classi più alte.

Attraverso una sorta di climax ascendente di odio, la narrazione assume quindi progressivamente una piega violenta e tragica, in cui riflessioni sulla vita e critiche sociali fanno da elemento congiungente. Quando vengono rilasciati, i due si ritrovano con Vinz a girovagare di notte, dove tentano prima di rubare un auto e costretti alla fuga quando vengono scoperti e poi, arrivati stanchi in un centro commerciale vuoto, scoprono della morte di Abdel.

In strada, Hubert e Saïd vengono aggrediti da un gruppo di skinheads; arriviamo ad un momento cruciale: Vinz riesce a catturare uno di loro e, putandogli la pistola alla testa, si materializza per lui l’occasione di uccidere, di realizzare quell’archetipo di gangster che tanto sognava. In una scena ricca di suspense, Vinz tuttavia desiste, comprendendo (anche grazie ad Hubert) che in realtà il suo personaggio fosse discrepante con la sua persona: il gangster a cui aspirava di essere era ben lontano dalla sua vera natura. Attraverso questa sequenza, Kassovitz riesce a trasmettere un messaggio ragguardevole: in ambienti particolarmente ostili, spesso si perde di vista ciò che si è davvero, favorendo invece quel “personaggio” creato ad hoc, un po’ per imitazione, un po’ per sopravvivenza. Solo attraverso la razionalità e la conoscenza possiamo quindi liberarci da queste oppressioni sociali, ed è per questo che lo spettatore è ora posto in grado di comprendere la volontà espressa in precedenza da Hubert di voler andare via da quella realtà, in cui l’impulsività eccessiva regna sovrana. Kassovitz, attraverso una delle scene visivamente più emozionanti della storia del cinema contemporaneo, in quest’ottica fa dunque eco ai grandi pensatori classici: scegli chi vuoi essere; non più “Le monde est à vous” (il mondo è vostro) ma “Le monde est à nous” (il mondo è nostro): non più dall’alto ma da dentro di noi.

Scena di "le monde est a nous"
Frame tratto dall’iconica scena del film

Come nelle migliori tragedie, tuttavia, la presa di coscienza è amara. Vinz, che nel frattempo aveva dato la pistola rubata ad Hubert, decide di tornare a casa, ponendo fine alle ventiquattr’ore di odio. Tuttavia, il circolo vizioso non si esaurisce: un poliziotto giunto sul posto ferma Vinz e, intimidendolo con la sua pistola, spara accidentalmente in pieno volto il ragazzo, davanti agli occhi di Saïd, anch’egli fermato. Hubert, che aveva percorso pochi passi più lontano, torna indietro e, impugnando la pistola che Vinz gli aveva dato, la punta al poliziotto. Assistiamo così ad un’ultima, spettacolare sequenza: davanti ad un suggestivo murales dell’immenso poeta Baudelaire, Hubert punta la pistola al poliziotto, il poliziotto la punta ad Hubert. Saïd si ritrova inerme ad assistere della scena, immagine speculare dello spettatore. Con un movimento progressivo di macchina si arriva ad un primo piano di Saïd che decide di sbarrare gli occhi per non guardare. Il film si chiude con uno sparo, che lascia ignoto l’esito dello scontro.

Ecco che ritorna la voce fuori campo di Hubert che, così come all’inizio del film, pronuncia:

È la storia di una società che precipita e che mentre sta
precipitando si ripete per farsi coraggio: “fino a qui tutto
bene, fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene”. Ma il
problema non è la caduta ma l’atterraggio.

Una frase tanto illuminante quanto tragicamente reale, che chiude uno dei film più importanti della storia contemporanea del cinema. Con assoluta modernità, infatti, L’odio non può che essere un film senza tempo, che emozionerà, attraverso le proprie scene e le proprie frasi, ancora tante persone negli anni a seguire ma che, allo stesso tempo, non smetterà di aprire le menti riguardo temi ancora troppo attuali. In un certo senso, il mondo ha ancora tanto da imparare da La Haine.

Tag-line della cover ufficiale de "La Haine"
Tag-line della cover ufficiale de “La Haine”

Scritto da Emanuele Fornito


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