Accademia della Crusca: le origini di un’istituzione

di Costanza Maugeri
6 Min.

L’Accademia della Crusca è uno dei principali punti di riferimento per le ricerche sulla lingua italiana. Un’istituzione che fa la sua comparsa negli ultimissimi anni del 1500 ed, ancora oggi, la voce più autorevole, essa si risveglia quando tra le nostre labbra si articolano due parole: “lingua italiana”.

L’Accademia sboccia tra il 1582 e il 1583 a Firenze su un terreno arido: un’associazione privata che si pone come obiettivo lo studio e la ricerca linguistici in un territorio in cui per avere un’unità nazionale dovremo aspettare ancora più di due secoli e nel quale, per tale motivo, le forze centrifughe sono fortissime.

Il nucleo originario è composto da cinque letterati: Giovan Battista Deti, Anton Francesco Grazzini, Bernardo Canigiani, Bernardo Zanchini, Bastiano de’ Rossi; a questi si aggiunge immediatamente Lionardo Salviati, figura che darà un contributo essenziale all’allestimento del Vocabolario degli Accademici della Crusca.

Ai loro incontri, ai loro confronti si lega l’origine del nome di questa istituzione.

alle loro animate riunioni, chiamate scherzosamente “cruscate”, derivò il nome di “Accademia della Crusca”, poi reinterpretato in riferimento alla separazione tra crusca e farina, metafora per significare il lavoro di ripulitura della lingua. L’istituzione assunse come proprio motto un verso del Petrarca – “il più bel fior ne coglie” – e adottò una ricca simbologia tutta riferita al grano e al pane.

Sito Ufficiale dell’Accademia della Crusca

Il Vocabolario degli Accademici della Crusca (1612): un vero fiore all’occhiello

Il Vocabolario degli Accademici della Crusca, pubblicato nel 1612, è il fior all’occhiello della lessicografia italiana ed europea. Dal 1591 gli Accademici discutono sul modo di “fare il Vocabolario”.

Salviati, già morto al momento della pubblicazione, aveva accennato la volontà di allestire un vocabolario della lingua toscana.

La prima edizione si basa, infatti, sull’elenco di autori forniti da Salviati e altre poche aggiunte non incoerenti a quella lista. L’impostazione dell’opera si basa sull’idea che gli autori minori del Trecento meritano di stare accanto, per meriti linguistici, alle tre Corone: Dante, Petrarca e Boccaccio.

Nel 1612 è stampato presso la tipografia veneziana di Giovanni Alberti. Sul frontespizio abita un frullone o un buratto, strumento usato per separare la farina dalla crusca (simbolo dell’Accademia) con su scritto: “il più bel fior ne coglie”. Quando ci riferiamo alla novità della scelta degli autori da usare negli esempi, non dobbiamo cadere in errore.

Salviati, è vero, si schiera contro Bembo e alla sua lingua cristallizzata in Boccaccio e Petrarca, ma la ricerca che compie si muove, in ogni caso, sulle opere degli autori antichi, una speculazione che possiamo definire libresca.

Le successive due edizioni seicentesche

Frontespizio del Vocabolario degli Accademici della Crusca

Nonostante le opposizioni che il Vocabolario attira su di sé. Citiamo, ad esempio, il professore Paoli Beni che critica la scelta di un canone trecentesco e contrappone il Cinquecento; il Seicento vede altre due edizioni:

  • nel 1623 la seconda edizione viene pubblicata senza particolari modifiche:
  • la terza, invece, del 1691 presenta un incremento sostanziale di materiale lessicale, nelle definizioni e negli esempi contenuto in tre tomi (parti) invece di due. L’allestimento di quest’ultimo lavoro seicentesco venne presieduto da un team d’eccezione, nel quale spiccano uomini di scienza come Francesco Redi e Lorenzo Magalotti. 

Una lode all’Accademia della Crusca

Il poeta toscano Giuseppe Giusti scrive una lode all’Accademia della Crusca nella quale

 si raccomanda agli accademici di distinguere con saggia discrezione le parole buone da quelle cattive, senza sciocchi ostracismi, ma anche senza eccessiva larghezza. Facciano essi come il buon fornaio, che sceglie con cura il grano prima di macinarlo, ma non esita a mescolarlo, quando occorre, anche con il grano duro d’altri paesi: purché il pane venga buono. 

Sito Ufficiale dell’Accademia della Crusca

Questo componimento è pubblicato postumo nel 1863 in “Scritti vari in prosa e in verso di Giuseppe Giusti” . Essa è curato di Aurelio Gotti, Firenze, Le Monnier

Della Accademia della Crusca

Al sollecito fornaio
Che, seduto sullo staio,
ripulisce e raggranella
il bel fior della favella,
già s’intende che non basta
di tener le mani in pasta,
perché il pubblico ammirato
di vederlo infarinato,
gli s’affolli sul cammino
quando torna dal mulino:
ma desidera sul sodo,
che si mangi un pane ammodo,
di quel pane a cui la sporta
apron tutti i ricorrenti,
che ogni stomaco conforta,
ed è buono a tutti i denti.
E per questo attende bene
All’origine del grano,
s’egli è indigeno, o se viene
da vicino o da lontano.
Né l’appaga ogni frumento
lì battuto del momento.
Ma lo cerca riposato,
ventilato e soleggiato,
per veder che non ribolla
quando all’acqua si marita,
e ne resti inaridita
o la crosta o la midolla.
E cavandola dal sacco,
non lo passa al macinìo,
quando sappia un po’ di stracco,
o che pigli di stantìo.
Ché se a volte si prevale
Del gran duro forestiero,
lo corregge col nostrale,
ché non faccia il pane nero
che si lievita e si spiana
per la gente grossolana,
che avvezzatasi ogni giorno
e servirsi d’ogni forno,
non distingue il pan dai sassi. 


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