SaturDie Ep.14 – Misteri dietro la morte di Caravaggio

di Gaia Vetrano
34 Min.

La scorsa settimana vi abbiamo narrato una storia di passione e ossessione, legata indissolubilmente al mito della Medusa. Una delle rappresentazioni più celebri di questa la ritroviamo nella produzione di Michelangelo Merisi, più noto come Caravaggio.

Il pittore inquieto, la cui storia è immersa nel mistero come i suoi quadri sono avvolti dalla luce e dalle ombre, in un eterno abbraccio. Alla vita di Caravaggio si stringe in una morsa oppressiva l’enigma. Quale miglior personaggio di cui raccontarne la storia?

Uno degli artisti più apprezzati al mondo, non c’è mostra che non attiri appassionati di arte. Non c’è studioso che non conosca i suoi quadri. Forse perché è riuscito a scavare nell’anima di colui che ammira i suoi dipinti riuscendo a rappresentare le più profonde emozioni della natura umana? O forse perché l’uomo è sempre stato ammaliato e affascinato dalle esistenze tormentate e dai racconti avventurosi?

Una figura dal carattere complesso e tormentato. Una vita da romanzo, segnata da eccessi, fughe, un delitto (o forse due), e anche dall’impronta personale che diede all’arte, oltre che al suo spaventoso contributo.

Giunti a parlare di quella creatura prodigiosa che è la Medusa, sotto cui posa l’agonia della morte. Su di essa si scolpisce la sua ombra, che si poggia leggiadra sulle sue vittime. Una storia che Caravaggio padroneggia e racconta come dono per Ferdinando I De’ Medici.

Si tratta di un’opera cruda, un olio su tela incollato su uno scudo, dove Merisi immortala la sofferenza della punizione inflitta. Un realismo innovativo, che rappresenta il sangue che sgorga dalla carotide. La sublimazione più alta dell’ultimo istante di vita di una creatura condannata dal momento stesso in cui è venuta al mondo.

La creatura trasmette la paura e lo sgomento tramite l’espressione. La bocca spalancata, come se fosse stata colta durante l’ultimo grido. Gli occhi sgranati, sulle pupille impresso il riflesso della vita che le è stata tolta.

Medusa sta urlando, ma noi non la possiamo sentire. Eppure, il rimbombo della sua voce echeggia nei nostri timpani quando osserviamo l’opera, grazie alla bravura di un uomo anch’esso tormentato. Alla costante ricerca della perfezione, come dimostra il ciclo di Davide con la testa di Golia.

Quando guardiamo la luce, pensiamo a qualcosa di puro, di candido. La luce è il bene, la giustizia. Tutto ciò che di positivo c’è nella nostra cultura. All’oscurità associamo ciò che ci inquieta di più. L’ignoto, fiancheggiato dalla poesia delle lucciole e dal fuoco divampante delle stelle.

Nelle sue tele, il genio non è tanto nell’uso della luce, quanto la costante consapevolezza dell’oscurità circostante. Caravaggio, in anni di morte dovuti a pestilenze e povertà, ha reso la sua arte cattura del momento decisivo, fissata nell’eternità in un solo istante.

Estrema verità o falsità, congelate in un gesto con la mano, il pennello e i colori. Ma ciò che più stupisce del Caravaggio è anche il suo carattere. Oscuro, focoso. Capace di ardere ciò che lo circonda.

Come scrisse di lui Giovan Pietro Bellori:

Il modo del Caravaggio corrispondeva all’apparenza sua ovvero fisionomia; gli aveva complessione oscura ed occhi oscuri, il ciglio e la chioma erano neri, si che tale colore specchiavasi nella sua pittura

Ciò che Michelangelo Merisi vede in sogno, quando chiude gli occhi, è la sua terra d’origine, la Lombardia, e gli anni a bottega. Ma soprattutto una donna, che rappresenta l’ideale di bellezza eterno e immutabile nella fugacità effimera del quotidiano. Questa ha il volto coperto, e giace sdraiata con, nella fissità delle labbra dischiuse e sensuali, il riflesso del sonno eterno.

Nella notte Michelangelo è oppresso dalla morte, che lo segue e lo ossessiona. Questa lo fissa e lo attende, come la Ophelia di Millais aspetta l’ultimo istante prima del soffocamento. Lei lo guarda, circondata dalle margherite che simboleggiano l’innocenza, dai papaveri che rappresentano il sonno mortale, e dall’ortica, simbolo del dolore.

Ma la vita del Merisi non può essere immortalata dall’ingenuità.

Caravaggio aspetta la condanna eterna, consapevole della sua vita sconsiderata. Quella di un artista che in primo luogo violò le regole in fatto d’arte che la Controriforma aveva imposto. Di carattere iroso e ribelle, propenso al gioco e alle risse. Nelle dispute sempre disposto a uscire le spade per difendere il proprio onore, tanto da arrivare a uccidere un uomo.

Così, quando deve rappresentare la morte nei suoi quadri, molto spesso si ritrae nei personaggi cui le vanno incontro, come succede con David con la testa di Golia. Nella Genesi biblica quest’ultimo è un guerriero filisteo alto tre metri, che decide di scontrarsi contro Davide, campione dell’esercito di Israele del re Saul. La vittoria del duello avrebbe deciso le sorti dell’intera guerra.

Caravaggio

Il piccolo israeliano non ha esperienza. È giovane e di bell’aspetto ma non è ancora pronto per combattere. Eppure è l’unico che ha il coraggio di chiedersi perché quel gigante abbia il coraggio di sfidare il popolo eletto di Dio. Proprio per questo ardore Saul accetta che sia lui a rappresentare il suo popolo.

David è solo una pedina nelle mani della fede. Riesce a vincere usando una fionda, con cui scaglia contro l’avversario ben cinque pietre. Golia cade a terra e Davide allora gli sfila la spada dal fianco e gli taglia la testa, uccidendolo.

Caravaggio rimane impressionato da questa storia, tanto da autoritrarsi, secondo molti studiosi, nel volto di Golia. Non solo, ma anche nei panni del vincitore del duello. Una doppia autoidentificazione: il Merisi crea un’immagine idealizzata del pittore adolescente, che sconfigge ormai l’anziano Michelangelo, peccatore incallito.

Il suo è l’ultimo tentativo di espiare le proprie colpe e i propri peccati. Il giovane eroe biblico sbuca dall’oscurità con la testa del gigante filisteo, che esibisce come un macabro trofeo.

Il realismo della rappresentazione indugia impietoso sul viso, sullo sguardo spento, sulla dentatura irregolare, sulla bocca spalancata fissa nell’esalazione dell’ultimo respiro, sul labbro inferiore tumefatto, che conferisce un’aria pateticamente caricaturale al viso.

Siamo dunque di fronte a un Caravaggio contrito, che si ritrae nelle vesti del gigante decapitato perché afflitto dai sensi di colpa? Il dipinto rientra pertanto nel filone morale della Virtù che trionfa sul Vizio?

Appare quindi la contrapposizione Adolescenza/Innocenza – Maturità /Vizio, e il Caravaggio si sarebbe idealmente affidato a una giustizia più alta di quella umana, trasferendo sulla tela l’eterna contraddizione esistenziale dell’uomo. In sé racchiude il bene ed il male, trasformandosi di volta in volta in vittima e carnefice.

Quando Caravaggio si trova sulla sua feluca, diritta verso Porto Ercole da Roma, è forse a questo che lui pensa? Alla sua condanna a morte che sancirebbe la vittoria del David?

Porto Ercole

L’imbarcazione, mentre attraversa il mare, traballa. Il pittore è preoccupato. È luglio, e con sé porta tre tavole, che rischiano di rimanere danneggiate dal trasporto, dall’umidità e dal possibile contatto con l’acqua. La sua pittura è l’ultima cosa che gli è rimasta in quegli anni di latitanza.

Un solo errore, che però aveva segnato la sua vita. Ora, però, potrebbe finire. Eppure, Caravaggio non rimetterà mai più piede nella Città Eterna, come invece tanto sperava.

La sua arte è ancora una volta il costo della libertà. Immaginate di vedere quindi un veliero che, con la prua, si dirige verso le coste. Ha delle tele arrotolate, forse qualche soldato a bordo. Arrivato a Palo di Ladispoli viene fatto scendere a terra, privo dei suoi bagagli.

Vestito da mendicante, con la barba lunga e incolta. Il viso pieno di rughe e la camminata appesantita. Porta con sé una spada dalla quale non si separa mai. Sceso a terra viene fermato da dei cavalieri che lo sottopongono a dei controlli, mentre la sua barca riparte verso Napoli. Le sue tele non le rivedrà mai più.

Sembra l’inizio di un giallo, ma è soltanto l’ultimo atto di un uomo dove i termini genio e sregolatezza si abbinano perfettamente per descrivere la sua parabola pittorica ed esistenziale.

Scena de “L’ombra di Caravaggio”

Nonostante Caravaggio ripeta che il Papa gli avesse concesso il perdono, le guardie lo arrestano a causa della condanna a morte che pende sulla sua testa. La sua vita è un incredibile sequela di fatti e punti oscuri e con difficoltà raccontiamo questi mesi di prigionia. Possiamo solo dire, che un’unica presenza è costante in questo periodo.

D’altro canto, cosa fare quando ti viene privata l’unica tua ragione di vita, ossia l’arte? Che smuoveva il suo animo come il mare in tempesta che spostava la feluca che lo avrebbe dovuto portare presso la salvezza.

Quei quadri sono il suo lasciapassare. La sua unica ancora di speranza. Quando verrà rilasciato, non si sa come, se a piedi o via mare, riesce a raggiungere Porto Ercole. Ma è troppo tardi.

I suoi lavori non ci sono. Lui è soltanto lo scheletro dell’uomo impetuoso che era. Agli albori dei quarant’anni, decretato grande dalla Città Eterna, soccombe sotto il peso della sua vita sregolata. Ormai, la vista si annebbia. La fronte scotta, gli occhi bruciano e fanno fatica a rimanere aperti.

I dorsi delle mani sudano, e non hanno più quella stretta tenace, con la quale impugnava i suoi pennelli. A mala pena si regge in piedi, perché gli arti e la schiena lamentano dolori laceranti alle articolazioni. La bocca disidratata e un dolore lancinante alla testa che gli vieta di dormire e persino di pensare.

E poi la nausea e il vomito, fino al mal di gola. Caravaggio prova in ogni modo ad aggrapparsi alla vita con ogni forza che ha in corpo, ma l’ossigeno sfugge dai suoi polmoni in un soffio, senza che riesca a porre resistenza. Così, l’acido carbonico si accumula nel sangue, provocando la morte dell’uomo, che si spegne nel soleggiato luglio.

Eppure, come per la vita, anche la morte di Michelangelo Merisi possiede punti di luce e di ombra. Così, miei cari, vi introduciamo la storia di un artista tormentato e impetuoso.

E quale modo migliore per farlo se non con un proemio cavalleresco?

La vita, le liti, le armi, gli amori,
l’arte, l’audace intelletto io canto,
che furo al tempo che passaro i Cavalieri dell’ordine di Malta
d’Africa il mare, e nella vita di un uomo nocquer tanto,
seguendo l’ire e il tacito assenso
della curia romana
, che si diè vanto
di vendicare l’offesa arrecata a un potente cavaliere
sopra il cardinale Scipione.

Liberamente tratto dal proemio dell’Orlando Furioso

Tra luce e ombra la vita di Caravaggio

Del luogo dove nacque, Michelangelo Merisi porta anche il nome. Nel 1573 è un giovane sprovveduto originario di un paesino lombardo, capace di dar vita a fiumi di parole. In realtà, qualcuno sostiene sia invece nato a Milano il 29 settembre 1571.

L’infanzia a Caravaggio, dove la sua famiglia viene travolta dalla peste, che brutalmente si porta via sia il padre Fermo Merisi che il nonno Bernardino e poi lo zio Pietro. Poi l’apprendistato presso Simone Peterzano, allievo del Tiziano. Questo gli insegna in quattro anni l’uso del colore, poi se ne perderanno le tracce.

Caravaggio, in provincia di Bergamo

Finito il suo lungo periodo di apprendistato, qualcuno ritiene sia subito andato a Roma. Eppure, abbiamo pochi documenti che, come i volti dei suoi quadri, emergono dal buio. I suoi colleghi pittori non parlano molto bene di Caravaggio, come Giovanni Baglione, che lo definisce come un personaggio ingombrante.

Gli anni dal 1588 fino al 1592, ultima testimonianza della sua presenza in Lombardia prima di raggiungere Roma, risultano piuttosto nebulosi. Caravaggio è un uomo violento, per questo molti ritengono, anche dei suoi contemporanei, che sia fuggito da Milano in quegli anni per andare a fare l’allievo di Giorgione o il cavaliere di ventura.

In particolare, come racconterà Baglione, si ritroverà probabilmente in Ungheria a combattere contro i turchi, evento che segnerà profondamente la sua vita, tanto da costringerlo a girare sempre armato di una spada, che diventa la sua fedele compagna.

Così facilmente è capace di tirarla fuori per difendersi da coloro che ritiene nemici. Incapace di adattarsi alla vita di tutti i giorni. Un uomo violento sempre in guerra contro il mondo e contro sé stesso.

Giuseppe Cesari

A Roma per sopravvivere dipinge qualsiasi cosa, fino a quando la fortuna non gira a suo favore. Riesce ad entrare, dopo qualche mese, nello studio di Giuseppe Cesari, detto Il Cavalier d’Arpino, amato da Papi e aristocratici, dove rivela le sue straordinarie capacità. Eppure, il proprietario di bottega, forse per non lasciare che offuschi il suo talento, lo costringe a contribuire solo nella realizzazione di dettagli e opere morte.

Ecco perché Caravaggio resiste otto mesi nel suo studio. Perché il suo destino non è fare la comparsa.

Eppure, è proprio in questo luogo che prendono vita i suoi primi quadri. Questi verranno affissi nella galleria Borghese, che possiede la più vasta collezione di opere di Caravaggio. Una passione vorace lo muove a creare sempre nuovi capolavori, nonostante il carattere complicato. Realmente la testimonianza della sua bulimia artistica.

In un sottile equilibrio si uniscono i quadri dello squattrinato artista che, appena giunto nella caotica Roma, è sempre al verde. Ma questo non ferma la sua passione, e comincia a dipingere figure umane. Molto spesso sono degli autoritratti, non potendo permettersi dei modelli.

Uno tra questi è il Bacchino Malato, un quadro di grande rilevanza artistica, dove la frutta sempre quasi pronta per essere raccolta. In esso, il Caravaggio è probabilmente sofferente a causa di una ferita dovuta a un incidente.

Con l’amicizia del cardinal Francesco Maria del Monte, per cui crea alcune tele, Merisi comincia ad acquisire fama. Frequenta i più importanti salotti dell’alta nobiltà romana e l’ambiente fu scosso dalla sua pittura rivoluzionaria. Immediatamente al centro di discussioni e accese polemiche, perché molti ritengono abbia dei rapporti sessuali con i modelli che per lui posano.

Per dipingere, Merisi sfrutta uno specchio piano come guida, che lo aiuta nello studio prospettico dei piani, dei rilievi e del chiaroscuro. Un’idea che eredita da Leonardo, che sosteneva che l’arte stessa era rinchiusa nel riflesso.

La sua fama scoppia a partire dal 1599, e il traguardo più grande lo raggiunge nel 1605, quando gli commissionano un quadro per San Pietro, destinato a sostituirne un altro che decorava l’altare della loro cappella dedicata a sant’Anna.

Caravaggio ritrae quindi una Madonna prosperosa e attraente, dalle forme abbondati e la gonna sollevata che tiene in braccio un Gesù bambino completamente nudo. Al suo fianco abbiamo sant’Anna, rappresentata come una vecchia rugosa e infagottata in una veste oscura.

Ma ciò che crea più scandolo sono i modelli usati per la Vergine e il Bambino: Lena, una prostituta romana di cui Caravaggio era innamorato e suo figlio. Una donna bella e prosperosa che sulla tela non viene idealizzata.

Gli anni di successo vanno avanti, ma basta poco per distruggere ciò che si è creato. Il suo carattere irascibile lo allontana da chiunque, tanto da rimanere solo. L’unico che lo salva dalla povertà è Costanza Sforza Colonna, che gli procura committenze e amicizie influenti.

Costanza Sforza Colonna

Ma questo non basta, perché gira armato di spade e pugnali, nonostante non ne abbia il permesso. A chi gli contesta ciò risponde che gli sia stato dato a voce dal Procuratore romano.

Perché andasse in giro con un’arma rimane un dubbio. D’altro canto non era un nobile, bensì un protetto del Cardinale del Monte, che lo fa alloggiare a Palazzo Madama, e gli dona anche il denaro necessario per vivere, che Caravaggio sfrutta per pagare l’affitto di un secondo appartamento da usare come studio.

Il carcere è un luogo che conosce: vi si reca prima per aver malmenato e percosso con un bastone Girolamo Stampa. Sarà querelato poi per aver lanciato un piatto di carciofi a un cameriere. Infine rischia una condanna per aver ferito gravemente un notaio, Mariano Pasqualone di Accumoli, per difendere l’onore di Lena. Per questo deve scappare a Genova, dove aspetta che qualcuno insabbi l’accaduto.

Ritornato a Roma passa gli anni più belli della sua carriera, ottennendo la sua prima commissione pubblica, ossia Cappella Contarelli, per cui dipinge una delle sue opere più importanti: Vocazione di san Matteo.

In quegli anni usa come soggetti persone comuni, che vengono dalla strada. Amici, prostitute, camerieri. Chiunque incontri per strada o nelle bettole che sia in grado di ispirarlo. Donne e uomini che mette in posa e ritrae dal vero. L’artista non si serve di loro solo per soggetti profani, ma anche di carattere devozionale.

Ormai, per le famiglie romane possedere un Caravaggio è motivo di vanto. Questo però è irrequieto, sempre in rotta anche con gli altri pittori, a cui ripete che non capiscono nulla di arte e che le loro pitture sono mediocri.

Il 28 maggio 1606 avviene però un fatto determinante.

A causa di un fallo in una partita di pallacorda, sport di origine medievale, Merisi e il suo avversario cominciano a discutere, finendo a duellare. Con il rivale, tal Ranuccio Tomassoni da Terni, aveva già disputato delle risse perché entrambi interessati all’amore di Fillide Melandroni.

Quell’innocente partita diventa una resa dei conti tra i due, che si affrontano con le armi. Ranuccio ha la peggio, che cade a terra. Il pittore riesce a ferirlo mortalmente, uccidendolo.

Qualcuno ritiene che dietro il duello vi fossero anche dei motivi economici, forse dei debiti di gioco. O addirittura questioni politiche: la famiglia Tommasoni infatti, era notoriamente filo-spagnola, mentre Michelangelo Merisi era un protetto dell’ambasciatore di Francia.

Il verdetto per il delitto di Campo Marzio dà il via a una nuova fase della vita del Caravaggio, che adesso è un morto che cammina. Viene infatti condannato alla decapitazione, che poteva esser eseguita da chiunque lo avesse riconosciuto per strada.

Nei suoi dipinti cominciano ossessivamente a comparire teste mozzate, e il suo macabro autoritratto prende spesso il posto del condannato. La scena della decapitazione trova spazio già da molto tempo nelle sue tele, avendo assistito alla condanna di Beatrice Cenci, accusata di parricidio. In quel periodo le condanne a morte erano all’ordine del giorno, tra queste anche quella di Giordano Bruno, estradato a Tor di Mola e condannato per eresia.

Ancora una volta i Colonna lo aiuteranno, dandogli asilo nei loro suoi feudi laziali di Marino, Palestrina, Zagarolo e Paliano.

Alla fine del 1606, Caravaggio arriva a Napoli, nei Quartieri Spagnoli, dove rimane circa un anno. La città è un insieme di vicoli e suoni, intricata e intrecciata, brulicante di persone affamate di vita. Il luogo perfetto per il Merisi. La fama del pittore era nota presso la famiglia dei Carafa-Colonna, presso cui alloggia per intercessione di Costanza. È uno dei periodi più prolifici della sua storia, ma delle tele che realizzerà solo due rimarranno nella città.

L’ordine dei cavalieri di Malta

Nel 1607 Michelangelo Merisi partì per Malta, sempre per intercessione dei Colonna, e qui entrò in contatto con il gran maestro dell’ordine dei cavalieri di san Giovanni, Alof de Wignacourt, cui il pittore fece anche un ritratto. Spera di poter ottenere l’immunità, così da sfuggire alla condanna a morte.

L’ordine di Malta mette in dubbio il luogo di nascita di Caravaggio. Lo accusano infatti di non avere la cadenza milanese, quindi di non essere nato lì. Nonostante la disputa, gli viene riconosciuta una carica minore, quella di “cavaliere di grazia“, rispetto ai “cavalieri di giustizia” di origine aristocratica.

Ma quando a Valletta litiga con i membri dell’Ordine, viene imprigionato. Nuovamente con l’aiuto dei Colonna scappa a Siracusa, dove lo ospita Mario Minniti, avendo ora i cavalieri di Malta alle calcagna. Alla fine dell’estate del 1609 Caravaggio torna a Napoli. Qui, probabilmente a ottobre, verrà attaccato fuori da una locanda da dei maltesi, che lo feriranno brutalmente.

In questi ultimi anni dipinge il David con la testa di Golia. In quegli anni, Caravaggio accetta qualsiasi commissione pur di arrotondare qualche spicciolo.

Già dai tempi in cui si trovava a Malta, però, la sua salute si dice sia iniziata a peggiorare. Continua comunque a dipingere, creando opere crude ma monumentali. Poi, la raccomandazione del Papa Paolo V, che stava preparando una revoca della condanna a morte. Dopo il difficile lavoro per i maltesi, riesce a ottenere la presunta pietà.

Da Napoli quindi, dove abitava presso la marchesa Costanza Colonna, si mette in viaggio nel luglio 1610 con una feluca-traghetto che, settimanalmente, navigava verso Porto Ercole e ritorno. Con sé porta dei quadri, che vule donare a Scipione Borghese, nipote del Papa e potente cardinale. Ma di questo vi abbiamo già parlato.

Se vi dicessimo che, forse, Caravaggio a Porto Ercole non ci sia mai arrivato? Che l’Ordine dei cavalieri di Malta sia arrivato prima?

Caravaggio è stato assassinato?

Quando l’Ordine di Malta vuole investire del titolo Caravaggio, qualcuno si rende conto che, forse, l’artista non ha la pasta giusta. Loro sono infatti sottoposti a una ferrea disciplina, che Michelangelo nella sua vita non ha mai dimostrato. La loro vita è regolata da un rigido codice di comportamento.

Quando lo sfidano a duello, lo scherniscono e gli ripetono di essere un incapace con la spada. La loro tecnica li rende degli spadaccini invidiabili, in grado di mantenere la calma davanti a provocazioni e offese altrui. Caravaggio sappiamo invece non riesca a condividere la stessa imperturbabilità d’animo.

Viene ferito alla spalla, mentre gli ridono davanti.

Nell’agosto del 1608 ferisce un cavaliere di rango superiore: un atto molto grave. Chi se ne macchia rischia addirittura la condanna a morte. Così, come vi abbiamo detto, viene arrestato. Lo imprigionano a Forte Sant’Angelo, ma a ottobre riesce a fuggire, forse grazie allo stesso Gran maestro dell’Ordine e ai Colonna.

Qualsiasi cavaliere riesca a fuggire viene espulso dall’Ordine e considerato fetido e putido. Un uomo senza spina dorsale. Quel titolo in quattro mesi gli viene sottratto. La paura di essere braccato rimane per tutto il viaggio e molti si chiedono per quale motivo sia giunto a Palo Laziale.

Malato, con una ferita ricucita male, tutti si chiedono cosa avesse in mente fuggito da Malta. In Sicilia abbandona capolavori assoluti e ottiene molte commissioni. Per quale motivo lascia questa terra che gli prometteva fortune?

Nei suoi ultimi mesi di vita smette di mangiare con regolarità e pensa solo alla sua arte, ciò che gli rimane per lasciare un segno nella sua terra. Ma la sua mente è sconvolta. Non può fare a meno che temere di essere braccato. Arriva addirittura a dormire con il coltello accanto.

Pacelli

Perché arrivato a Palo Laziale preferisce andare a Porto Ercole, anziché tornare verso Napoli? Dopo la prigionia copre ben 120km. Una distanza notevole. Eppure qualcuno ritiene non l’abbia mai percorsa.

Quando ci interroghiamo sugli ultimi istanti di vita di Caravaggio, Vincenzo Pacelli ci dà una risposta. Questo, ordinario di Storia dell’Arte Moderna alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Napoli Federico II, comunemente considerato uno dei maggiori esperti di Caravaggio in Italia interviene sul “caso Caravaggio”, sostenendo che sia stato ucciso.

Attestazioni certe sulla morte non esistono. Documenti sul funerale, che normalmente è un fatto storico accertato, non esistono. Per Caravaggio non esiste neanche la prova certa che sia stato ritrovato il cadavere. Difatti, fosse morto di febbre malarica, questo sarebbe stato rinvenuto.  

Quando si parla di Porto Ercole, ci si interroga sul fatto che dà quel luogo non sia stata data la notizia del decesso. Bensì se ne parlava a Roma e a Napoli, ma sorprende che nessun abitante della cittadina marittima l’abbia descritta come tale. Infatti, la data e il luogo tradizionali per la morte di Caravaggio, si ricavano non da un dispaccio ufficiale, ma da un epitaffio del poeta Marzio Milesi che lo chiama “esimio emulatore della natura“.

Il pittore, come si legge in alcune lettere ritrovate nell’Archivio Segreto Vaticano e scritte da un personaggio di indubbia importanza quale il Nunzio Apostolico del regno di Napoli, voleva portare dei quadri a Scipione Borghese. La barca subisce però un cambio di rotta dal porto di Civitavecchia verso Palo. Appena sceso, come sappiamo, venne incarcerato, senza una motivazione plausibile.

La tomba di Caravaggio

Secondo quanto si dice, Caravaggio sarebbe stato rilasciato dopo aver pagato un ingente somma di denaro al capitano delle guardie. Ciò ci insospettisce, perché Merisi denaro non ne aveva.

Ci chiediamo perché a questo punto la feluca sia tornata a Napoli subito, senza aspettare l’esito dell’incarceramento. È anche impossibile che Caravaggio sia riuscito ad arrivare a Porto Ercole da solo.

Sarebbe invece più plausibile che sia morto a Palo e che il suo cadavere sia stato buttato in mare. Pacelli sostiene anche che i Cavalieri di Malta lo abbiano giustiziato in riva al mare. D’altro canto, Caravaggio vive in un’epoca di notevole violenza.

Solamente Baglione accetta che la sua morte sia avvenuta a Porto Ercole. Ma possiamo essere certi delle parole di uno dei più grandi rivali di Caravaggio?

D’altro canto, dalle ossa trovate nelle fosse comuni di Orbetello, ci arrivano delle risposte interessanti. Queste sono state infatti identificate da una squadra di microbiologi capitanata da Giuseppe Cornaglia, aiutata da una equipe italo – francese dell’istituto Ihu Mediterranee Infection di Marsiglia.

Dallo studio della polpa dei canini e incisivi si scopre che, come spiega Michel Drancourt, il pittore non è morto né di malaria, né di sifilide né di brucellosi.

Hanno invece trovato tracce di stafilococco aureo, un batterio che difficilmente penetra l’organismo umano trovando nella pelle un muro invalicabile. A meno che non sia stato aiutato da una ferita da taglio, infetta grazie a un colpo, magari di spada. Questo quanto riporta uno studio della rivista The Lancet – Infectious Diseases.

Infine, Pacelli si serve anche di una biografia del pittore scritta da Giulio Mancini, che scrive come luogo della morte Civitavecchia, ma “sul documento il termine è cancellato e poi da altri corretto con Porto Ercole”.  Così come Francesco Bolvito, bibliotecario dei Teatini che, nel 1630, afferma che “il pittore è morto assassinato”.

Un altro indizio interessante è stata l’alta concentrazione di piombo rilevato nelle ossa: molti pigmenti naturali di origine minerale dell’epoca contenevano questo e altri metalli pesanti, che potrebbero essere stati introdotti nel corpo del pittore in seguito a un avvelenamento.

Pacelli conclude che, è plausibile che i cittadini di Porto siano contenti di una tradizione falsa e pretenziosa, ma è impossibile che nessuno, tra i vari committenti e le persone che in vita gli sono state vicine, si sia interessato a preparare una cerimonia per la sua morte.  

Vincenzo Pacelli muore nel 2014.

La morte di Caravaggio rimane un mistero, come tutti i più grandi poemi della storia. A noi piace pensare che sia morto a Civitavecchia, solamente a un’ora dalla sua amata Roma.

Scritto da Gaia Vetrano


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