Perché il sushi all you can eat è così economico?

di Gaia Vetrano
13 Min.

Non lo si può negare, da quando il sushi all you can eat si è diffuso Occidente non si può più farne a meno.

Soprattutto per i giovani rappresenta l’occasione perfetta per gustare le specialità della cucina giapponese senza però spendere cifre esorbitanti. L’idea infatti alla base degli all you can eat – letteralmente “tutto quello che puoi mangiare” – è quella di poter ordinare tutto ciò che si vuole, tranne i dolci e le bibite, pagando una cifra fissa.

Riassumendo, ci si può strafogare e ordinare quanto si vuole senza pagare alcun sovrapprezzo. L’unico limite non è il tuo portafoglio, ma lo stomaco. Ovviamente, se non si riesce a finire ciò che si ha nel piatto, le quantità di cibo rimanenti verranno pagate in più.

Eppure, il criterio imprenditoriale che basa l’offerta di un ristorante sulla quantità, generalmente lascia intendere che la materia prima non sia di qualità così alta.

Appare spontaneo chiedersi quindi come sia possibile che un all you can eat, dove generalmente si possono spendere al massimo fino a 20 euro, possa sostenere l’acquisto di materie prime di buona qualità. I costi del pesce sono infatti particolarmente alti, soprattutto se si tiene in considerazione il fatto che stiamo parlando di salmone o tonno, specie molto costose.

A un all you can eat si spende infatti tra i 10 e i 15 euro a pranzo, mentre a cena 20 euro circa, coperto e bevande esclusi.

Ovviamente è errato generalizzare, dipende infatti soprattutto dai gestori del ristorante, che sono i primi controllori del rapporto qualità – prezzo, anche dal punto di vista legale. Eppure, il rischio che sia preparato per noi sashimi di scarsa qualità non è così basso e, trattandosi di pesce crudo, le conseguenze sulla salute potrebbero essere gravi.

Da dove viene il risparmio? Il pesce:

A incidere sul bilancio di un ristorante di sushi, e non solo, abbiamo il costo delle materie prime, personale/manodopera, ammortamento struttura/ristorante e logistica per reperire la merce.

Pesce vecchio di uno o due giorni, salmone ‘quasi andato’, tonno insapore o gommoso. Questo è solo uno dei rischi al quale si può venire incontro recandoci a mangiare ad un all you can eat.

In merito a questo argomento sono state condotte varie indagini, a partire da quelle di Nadia Toffa per le Iene. Come le è stato spiegato, il pesce fresco ha vari requisiti che lo rendono riconoscibile: è lucido, inodore, dal colore brillante e non è appiccicoso. Per cui la qualità dell’offerta di un ristorante giapponese la si può capire ordinando il sashimi. Questa è infatti l’unica specialità non condita. Generalmente, la salsa di soia copre infatti queste caratteristiche.

Un pescato vecchio di due o tre giorni costa meno di uno stock di pesce fresco. Inoltre, se si vuole risparmiare, sicuramente il pesce d’allevamento è perfetto. Eppure, sono molte le insidie quando si parla di colture intensive.

L’organo di informazione scozzese The Ferret ha riportato uno studio sui branchi di salmone allevati in Scozia. Solo nel 2020 si stima che tra 4,4 e gli 8,9 milioni di salmoni siano stati inceneriti, sepolti o mandati in discarica. Per la nazione si tratta di un settore in crescita, finanziato anche dal Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca.

L’indagine riporta come il tasso di mortalità dei salmoni negli allevamenti si sia quadruplicato nell’ultimo secolo a causa della proliferazione di parassiti e malattie. Parliamo della malattia nodulare branchiale (AGD), l’anemia infettiva del salmone (ISA), la cardiomiopatia (CMS) e la pancreatite (PD). Secondo quanto pubblicato nel 2020 dal Fish Health Inspectorate il 64% dei pesci muoiono a causa di malattie diffuse negli allevamenti.

Mowi Scotland, Scottish Salmon Company, Scottish Sea Farms, Grieg Seafoods: questi alcuni degli stabilimenti controllati, dove è stata verificata anche la presenza di pidocchi di mare, parassiti che si cibano delle squame dell’animale, del sangue e del muco.

Per non parlare del diffuso uso di antibiotici: circa sei. Seguiti da cinque ectoparassiticidi, due antifungini e tre anestetici. Addirittura l’uso di pesticidi è aumentato di almeno cinquanta volte negli ultimi sei anni e ciò metterebbe a repentaglio anche la salute di coloro che a mare ci vengono per nuotare.

I dati sono allarmanti: per il Compassion in World Farming – il più grande ente beneficiario che si occupa della salvaguardia degli animali in allevamento – almeno il 28,2% dei salmoni messi in gabbia ogni anno muore durante la fase di allevamento.

Ma tornando a parlare di ristoranti si sushi all you can eat, quando si discute di cucina nipponica, sono comuni le truffe riguardo il pesce. Una delle pratiche attuate per cercare di abbassare i costi è proprio quella di spacciare una specie per un’altra.

“Nei ristoranti etnici la filiera dei prodotti non sempre è chiara”, avverte Rolando Manfredini, responsabile sicurezza alimentare di Coldiretti, secondo cui “sofisticazioni e contraffazioni del pesce sono all’ordine del giorno”.

Quindi, quando pensiamo di star mangiando tonno pinna rossa (thunnus thynnus), il più costoso, molto spesso è in realtà un thunnus pinna gialla, o albacares. Il primo si vende a 30 euro al chilo, il secondo a poco più di 22.

Questo succede anche con il filetto di pangasio al posto del nasello: 9 euro contro 24 al chilo. Il merluzzo eglefino spacciato come quello nordico. Anche qui l’abisso tra i due prezzi: 13 euro contro 18. La sogliola da 20 euro sostituita dalla platessa. Ma ancora: il pesce palla smerciato come rana pescatrice. I filetti di persico africano a 12 euro al chilo smerciati come cernia, che costa esattamente il triplo.

“Il pesce azzurro, se mal conservato, può provocare sindrome sgombroide. Laddove l’amminoacido istidina muti in istamina, c’è infatti il rischio di pesanti fastidi, fino allo shock anafilattico“, queste le parole di Claudio Monaci, direttore del reparto di veterinaria dell’Ats di Milano.

Quella del tonno usato per il sushi è una questione però più delicata. Molto spesso questo viene reperito da canali non controllati, dove si accede facilmente a vendite di tonno clandestino generalmente non tracciato che viene pescato sforando le quote limite consentite nei nostri mari. Si tratta di pesce congelato in ritardo, che non rispetta le norme di conservazione e viaggia su furgoni non idonei al trasporto di alimenti.

La possibilità che sia contaminato dall’anisakis non si può negare. Questo è un parassita intestinale che infesta le viscere dei pesci e può causare gravi danni allo stomaco umano.

Per non parlare dell’uso di additivi chimici. Parliamo per esempio del Cafodos, in Italia vietato, che conferisce all’esterno un’aria di freschezza a un alimento più vecchio. Ma anche la banale acqua ossigenata che rende più brillanti le carni, così come il monossido di carbonio e l’acido borico (quest’ultimo usato anche sui gamberoni).

Ma parliamo dei gamberi , spesso importati da Thailandia, Vietnam, Bangladesh e Cina. In media arrivano precotti e pronti per essere surgelati. Il problema sta però sia nella pesca che nell’allevamento. Queste hanno ripercussioni sull’habitat dell’animale. Per quanto riguarda la prima pratica, l’uso diffuso dello strascico distrugge il fondale marino.

fresh shrimp isolated on a white background

Per quanto riguarda l’acquacoltura, invece, i gamberi sono allevati con scarsi standard sia per quanto riguarda la sicurezza del cibo sia le condizioni dei lavoratori. Oltre alle problematiche legate alla diffusione elle malattie che abbiamo già visto per quanto riguarda il salmone.

In altri paesi, come la Thailandia, studi hanno riportato come la produzione di gamberi sia legata alla schiavitù. Il più grande esportatore mondiale di gamberi d’allevamento è thailandese: si parla di Charoen Pokphand Foods.

Secondo un’inchiesta di The Guardian, quest’ultimo comprava mangimi da fornitori i cui equipaggi sulle barche da pesca erano costituito da schiavi che lavorano venti ore al giorno e che vengono picchiati, venduti come animali e soggetti addirittura a esecuzioni sommarie.

Ma andiamo roll di granchio, specialità richiestissima nei ristoranti di sushi, dove viene usato invece il surimi, ossia una poltiglia solamente aromatizzata a base di scarti.

All you can eat di sushi: si risparmia anche sul personale

Il risparmio non riguarda solo il pesce, ma anche il personale.

Un cuoco di sushi professionista arriva a fare 240 rolls/ora – secondo uno studio del Crain’s – e sono pagati circa 1500–1800€/mese (in Italia almeno, come riporta anche Indeed). Vi lasciamo immaginare quale possa essere lo stipendio di uno chef con una preparazione inferiore. Uno chef professionale che lavora il pesce crudo si lava le mani ad ogni passaggio, per esempio. Oppure si cambia i guanti più volte durante un servizio, oltre a disinfettare le superfici di lavoro.

Un personale poco qualificato può anche sbagliare i metodi di conservazione. Il pesce è un alimento facilmente putrefabile a causa dell’alto apporto di acidi grassi polinsaturi e dall’alta concentrazione di amminoacidi liberi, gruppi azotati e enzimi proteolitici. Per essere surgelato deve essere inserito in un involucro resistente ad aria, umidità e odore come i sacchetti alimentari e ben chiuso. È consigliata la chiusura sottovuoto. Poi va mantenuto in un abbattitore tra –20°C e –30°C. Per il surgelamento le temperature richieste sono pari a –40°C.

Le ultime due fasi sono fondamentali perché necessarie per debellare i parassiti come l’anisakis.

Opportuno scrivere sulla confezione la data di congelamento e il nome del prodotto per evitare di dimenticarvi della sua presenza.

Questo per evitare le alterazioni dell’animale: ad esempio l’ossido di trietilamina in trimetilamina e poi in dimetilamina, ad opera degli enzimi batterici. Col passare del tempo si formano monoetilamina e formaldeide che provocano il caratteristico odore del pesce avariato, acido sulfurico e le amine biogene.

Queste ultime in particolare sono dannose per la nostra salute. Tra queste abbiamo l’istamina, la triptamina, la cadaverina, la putrescina e la tiramina.

Generalmente chi mangia pesce crudo conservato male rischi l’insorgenza di uno dei seguenti problemi:

  • Infezioni virali o batteriche
  • Intossicazioni da piante, alghe o sostanze nocive
  • Larve che provocano occlusioni intestinali

Si possono avvertire dolori addominali, dissenteria, nausea, vomito, febbre, prurito o eruzione cutanea e difficoltà a deglutire.

Scritto da Gaia Vetrano


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