Dillinger è morto (1969): uomo alienante, uomo alienato

di Emanuele Fornito
5 Min.

Quando gli individui si identificano con l’esistenza che è loro imposta e trovano in essa compiacimento e soddisfazione, il soggetto dell’alienazione viene inghiottito dalla sua stessa alienazione.

Marco Ferreri, citazione tratta dal film

Trama

Glauco, designer industriale, torna a casa e, intento a prepararsi da mangiare, trova una vecchia revolver forse appartenuta al gangster americano John Dillinger.

Recensione

Frame tratto da una scena di Dillinger è morto
Frame tratto da una scena del film

Michel Piccoli, tra i più famosi attori di quegli anni, è il protagonista di Dillinger è morto, una rappresentazione quasi disturbante che Ferreri compie sul tema dell’alienazione dell’uomo moderno. Ma, beninteso, “disturbante” non ha un’accezione negativa, anzi: il regista non poteva affrontare diversamente questo tema. E, in realtà, Marco Ferreri, che dopo qualche anno pubblicherà capolavori come La Grande Abbuffata (1973) o L’udienza (1972), esplica l’intera essenza dell’opera già all’inizio, quando fa leggere ad un collega del protagonista un monologo proprio sull’alienazione, andando quasi a psicoanalizzare il suo stesso protagonista, il quale, del resto, non presta neanche attenzione alle parole lette.

Frame tratto da una scena di Dillinger è morto
Anita Pallenberg in una scena del film

Quando Glauco torna a casa, ecco che incomincia una lenta caduta nel vortice dell’alienazione: è impossibile comprendere a fondo il film senza prestare particolare attenzione ad ogni gesto che viene perpretato dai diversi, seppur pochi, personaggi. E poche sono anche le parole: tutto è concentrato sulle azioni, poiché sono queste le vere chiavi di lettura dell’intera narrazione, o sarebbe meglio definirla come critica che il regista muove alle svariate minacce che condannano l’uomo all’alienazione. Sì, perché l’alienazione è soltanto il risultato di quella che è una società borghese improntata sul consumismo, che svuota l’uomo di pensiero ed essenza (e forse proprio per questo la quasi totale assenza di dialoghi risulta ancor di più intonata) e lo rende un essere vacuo, il quale, in balia del proprio disagio psicologico, si riversa nella ritualità nevrotica, nella psicosi, nella frustrazione.

Ne sono esempi le sequenze della cena, consumata dal protagonista con un’etichetta quasi ortodossa, o il rifiuto che Glauco muove verso sua moglie, convenzionale, riversando la propria attrazione sessuale sulla cameriera, anticonvenzionale. Tutto in Dillinger è morto è però fermo, in silenzio, vuoto, esattamente come l’uomo che Ferreri rappresenta: il protagonista dopo cena può solo rivivere, con delle immagini che proietta alla parete, una donna del suo passato, che cerca di toccare, naturalmente senza riuscirci.

Frame tratto da una scena di Dillinger è morto
Michel Piccoli e Anita Pallenberg in una scena del film

Glauco tuttavia è anche espressione di una società che, per ovvie conseguenze, è completamente collassata sul piano morale, a causa di una condizione che ha portato l’uomo al limite della propria tolleranza. Ecco che dunque il protagonista commette l’omicidio della propria moglie, quasi con assoluta indifferenza, e fugge, lontano, verso il mare, dove trova lavoro come cuoco su un’imbarcazione che ha appena celebrato un funerale.

L’omicidio e la fuga sono i simboli di uno sfogo quasi snervante frutto di un’esasperata condizione nella quale l’uomo è riversato: il primo è il simbolo della suddetta immoralità, il secondo è forse un’utopia, quella di fuggire dalla prigione esistenziale nella quale ci si ritrova, ma della quale è necessario averne prima conoscenza per poterne realmente sfuggire (ammesso che ciò sia davvero possibile).

In Dillinger è morto Ferreri dimostra certamente una particolare maestria dal punto di vista della regia, che, senza essere mai convenzionale, è pulita e lineare, così come la sceneggiatura, la quale, da come si è potuto desumere, vanta un’efficacia ideologica straordinaria.

Scritto da Emanuele Fornito


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