Cos’è la poesia? Diamo la parola a quattro poeti novecenteschi

di Costanza Maugeri
7 Min.

Ogni settimana, la domenica notte o il lunedì mattina quando arriva il momento di scrivere i “3 minuti di letteratura” settimanali, mi interrogo su cosa posso parlare: scrittore, poeta, opera letteraria in prosa o in versi e così ogni settimana chiacchieriamo di parole che creano immagini, mondi o universi e forse a volte li distruggono per farli rinascere o lasciarli morire svelando la loro contradditoria fragilità.

Oggi ho deciso di chiederci cos’e la Poesia. Così per riuscire in questo intento ho raccolto opinioni, pensieri e parole di chi la Poesia e la letteratura l’ha creata e la crea ogni giorno quando noi nella lettura la vivifichiamo. Ascoltiamo cosa hanno da dirci quattro anime poetiche meravigliose.

Giuseppe Ungaretti

M’illumino

d’immenso

Mattina, 1918

Questa poesia di Giuseppe Ungaretti fu scritta il 26 Gennaio 1917, durante la Prima Guerra Mondiale

Ungaretti dentro la trincea vede nella luce del Mattino la rinascita, la speranza e la bellezza del “nonostante tutto” di un nuovo giorno.

In questa poesia ermetica abbiamo una totale immersione del poeta dentro la luce.

Come se si fondessero anima della Natura e dell’Umanità in una sola e incomunicabile bellezza.

La Poesia di Giuseppe Ungaretti è cosi: essenziale, nell’essenza della parola che si fa sacra, religiosa, egli ricerca costantemente il suo io interiore e quello dell’intera Umanità.

Primo levi

Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un si o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.

Shemá, 1947

Primo Levi

Primo Levi sopravvisse alla Shoah. Questo evento lo cambiò per sempre.

Ogni giorno che visse dopo Auschwitz fece crescere in lui un senso di colpa e una domanda: “Cosa ho in più io che mi ha permesso di sopravvivere?” Domanda che lo portò all’estremo atto del suicidio.

Levi sente su se stesso il peso delle parole, sa che possono amare e odiare, sa che possono creare e distruggere. Sa che i discorsi pieni di retorica di Hitler e Mussolini hanno creato l’Inferno in Terra, ma quei versi dell’Inferno dantesco messi in bocca ad Ulisse:

«Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza»

Quelle parole poetiche ricordate come un monito nella mente tra i fili spinati del campo di sterminio, lo hanno salvato dalla prima morte, quella spirituale.

Pier Paolo Pasolini

«Penso che il romanzo debba essere necessariamente oggettivo: l’autore borghese non ne ha forse gli strumenti, per farlo, perduti col senso della propria storicità, svaporati nella metastoria intimistico-stilistica. Essere oggettivo non significa però essere ottocentesco: al positivismo generico che presiedeva al realismo di quel secolo, si è ora sostituita una bella precisa filosofia, quella marxista. La visione oggettiva di un personaggio, di un ambiente, di una classe sociale, che ne deriva, non può essere che diversa e nuova… Il romanzo non può essere che pura rappresentazione: il significato ideologico o sociologico, deve essere mediato dalla fisicità più immediata…Personaggio in azione, paesaggio in funzione, violenta e assoluta mimesi ambientale»

(Pier Paolo Pasolini da Inchiesta sul romanzo in Nuovi Argomenti 1959)

In Pier Paolo Pasolini l’uso della parola assume un valore sociale. Scrivere significa essere oggettivi, significa avere in mano una macchina fotografica.

La parola racconta il movimento del meccanismo sociale svelando il comportamento dei singoli ingranaggi. Una società borghese, bigotta, consumistica che Pasolini racconta, critica, odia consapevole di farne parte.

La parola deve essere concreta, polemica, aggressiva, sarcastica. Una scrittura fisica che sente il dovere civile di testimoniare

Alda Merini 

  Poesia, terrore del chiaroscuro,
   giorno e notte, aurora,
poesia, mia povertà
    e mia aperta fortuna
   mio rimorso e perdono.

Canto alla Poesia, 1980

Alda Merini, poetessa contemporanea scomparsa nel 2009, ci ha lasciato una profondissima riflessione sul significato stesso della Poesia.

In questo estratto del “Canto alla Poesia” ella si rivolge alla stessa arte poetica, dandole del Tu.

La Merini l’appella ” terrore del chiaroscuro”. La poesia, infatti, spoglia, rende nuda l’anima nelle sue ombre e le sue luci.

Ed è proprio l’atto di svestirsi, forse a provocare terrore nella poetessa.

La poesia che rende poveri, riduce all’essenziale l’animo umano, eliminando il superfluo, ci verseggia la Merini è la sua “aperta fortuna”, l’atto catartico dell’esprimersi.

“Mio rimorso e perdono” ,un bagno purificatore che scopre ogni fragilità, ogni sbaglio, ogni imperfezione. Nello stesso tempo, come durante un rito sacro, ti perdona, ti accarezza e ti cura. Ti dà la possibilità di perdonarti e amarti.

Scritto da Costanza Maugeri


Le foto presenti in questo articolo provengono da internet e si ritengono di libero utilizzo. Se un’immagine pubblicata risulta essere protetta da copyright, il legittimo proprietario può contattare lo staff scrivendo all’indirizzo email riportato nella sezione “Contatti” del sito: l’immagine sarà rimossa o accompagnata dalla firma dell’autore.

Articoli Correlati