Regno Unito: colonialismo e decolonizzazione, cos’è stato l’Impero Britannico?

di Elisa Quadrelli
Pubblicato: Ultimo aggiornamento il 15 Min.

Spesso nelle ultime settimane si è discusso del colonialismo inglese, argomento tornato in tendenza dopo la morte di Elisabetta II, durante il quale regno l’Impero Britannico ha cessato di esistere. Cos’è stato il colonialismo? Ma soprattutto, cosa ha comportato?

L’Enciclopedia Treccani ci spiega cosí il termine “colonialismo”: “In età moderna e contemporanea, l’occupazione e lo sfruttamento territoriale realizzati con la forza dalle potenze europee ai danni di popoli ritenuti arretrati o selvaggi. Per molti versi la storia del colonialismo può essere fatta iniziare con la scoperta dell’America da parte di C. Colombo (1492)”.

Dopo la morte della Regina Elisabetta II sono state sollevate polemiche di vario genere, rispetto al suo ruolo nel matrimonio finito male tra Lady Diana ed il Principe Carlo, rispetto a varie sue decisioni, ma soprattutto in merito al ruolo della Regina nella colonizzazione e decolonizzazione di paesi diversi, che però sono ancora facenti parte del Commonwealth Britannico. Le polemiche e i diversi racconti potrebbero generare confusione nei lettori e in coloro che tentano di mantenersi informati. Cerchiamo quindi di fare chiarezza, a partire dalla definizione di colonialismo, di cui sopra, per poi fare un excursus storico e culturale che aiuterá meglio i nostri lettori a contestualizzare un termine come “colonialismo” ai giorni nostri. 

Conquistadores

Se ad ora il colonialismo è associato ai paesi del Commonwealth britannico, è bene sapere che in passato, una delle prime potenze europee ad avere il primato coloniale era la Spagna, soprattutto durante il regno dei cosiddetti Re Cattolici: Ferdinando d’Aragona ed Isabella di Castiglia. È proprio sotto il loro dominio che Cristoforo Colombo compì i suoi famosi viaggi alla scoperta dell’America (1492). Nei seguenti anni le azioni dei conquistadores, denunciate da storici del tempo come Bartolomeo De Las Casas, furono condannate in quanto violente e volte alla sottomissione completa dei popoli indigeni dell’America. Talvolta tale missione di evangelizzazione e conquista assomigliava piú ad uno sterminio. A tale sterminio contribuirono le malattie provenienti dall’Europa, cui gli europei erano abituati, fatali per i nativi americani che non avevano gli anticorpi per combatterle. 

Una forma diversa di colonialismo è quella riconosciuta come colonialismo europeo o imperialismo, molto piú recente e da contestualizzare all’interno del Secolo Lungo, parte integrante della storia contemporanea. Tra il 1870 e il 1914 i paesi ricchi europei che stavano iniziando ad avere un’identità nazionale ben definita cominciarono ad aumentare i loro possedimenti. Ognuno a suo modo, Francia, Germania, Belgio, Inghilterra ed Italia si appropriarono di territori e risorse africane. 

L’India Britannica esisteva già come vera e propria colonia, mentre nel 1870 i francesi sconfiggono la resistenza algerina e al Belgio viene legittimata la sovranità in Congo con la Conferenza di Berlino del 1884 che darà il via all’espansionismo europeo (Scramble for Africa). Nel 1914 infatti l’Africa era stata completamente colonizzata, fatta eccezione per Etiopia e Liberia. Italia, Olanda, Belgio, Regno Unito, Francia e Germania si erano “spartiti” l’Africa, prendendone possesso in modi più o meno violenti. Degna di nota in questo senso si considera la pesantissima repressione al popolo della Namibia (Herero e Nama) da parte della Germania, tale da essere definito il Primo Genocidio del XXo secolo dalle Nazioni Unite. In questi anni si crea, piú che un’omogeneità tra colonizzatori e colonizzati a livello etnico, una contaminazione culturale reciproca. Di tale contaminazione rimane l’eredità linguistica e la formazione di ceti medi e ceti elitari e più istruiti.

La nascita dell’Impero Britannico e le colonie.

Di Emanuele Lo Giudice

Il più vasto impero della storia umana ha compreso per secoli colonie, protettorati, amministrazioni e domini guidati dal Regno Unito; l’influenza britannica ha cambiato il corso della storia di diverse regioni del mondo, sin dal XVI secolo. Già nel 1920 l’Impero Britannico governava un quinto della popolazione mondiale, diffondendo il proprio potere su vastissimi territori, circa un quarto delle terre mondiali. All’indipendenza statunitense, la Gran Bretagna perse molte delle sue più importanti colonie, cosa che la spinse a guardare verso l’Asia, dove l’India divenne il territorio più prezioso dell’Impero. Il “secolo imperiale” è forse l’arco temporale più importante della vita dell’Impero Britannico, che va dal 1814 al 1915. Con la conquista del territorio indiano, che rese la Regina Vittoria “Imperatrice d’India” nel 1876, e l’espansione in Africa (la cui ripartizione prese il via dalla Conferenza di Berlino del 1884), la Gran Bretagna visse l’apogeo del proprio espansionismo e lo visse nell’età vittoriana, decenni in cui divenne pian piano il più grande impero esistente. Un ulteriore ampliamento avvenne con il Trattato di Versailles, che sancì definitivamente la fine della prima guerra mondiale, tramite il quale la Gran Bretagna annesse Palestina, Transgiordania, Iraq, parti del Camerun e del Togo. Al suo apice, nel 1921, la Gran Bretagna contava colonie e territori in tutti i continenti; solo la seconda guerra mondiale innescò il declino, iniziato nel 1945

Una fine durata decenni: movimenti indipendentisti e fine decolonizzazione.

Di Emanuele Lo Giudice

Primo Ministro inglese, Macmillan

Nonostante la Gran Bretagna uscì dal conflitto mondiale come vincitrice, il danno subito dalle mire imperialistiche giapponesi mise in discussione la solidità dell’Impero. La guerra fredda sicuramente non aiutò al mantenimento dell’equilibrio britannico, vista la nascita di un sentimento antimperialistico in seno alle colonie, nonostante gli stati uniti spingessero il mantenimento dell’Impero Britannico a discapito dell’Unione Sovietica. Il Primo Ministro inglese Macmillan parlò di “vento di cambiamento”, preannunciando il progressivo sfaldamento imperiale che, tra il 1945 e il 1965, ridusse ampiamente il dominio britannico mondiale. La crisi di Suez, conclusa con il ritiro delle forze britanniche, confermò il declino della solidità inglese, che però rimase presente nel Medio Oriente. Iniziò un processo di decolonizzazione, dunque l’abbandono del controllo governativo a favore dell’indipendenza, che vide protagoniste colonie in Africa e in altre regioni mondiali. Sudan, Costa d’oro (odierno Ghana), Kenya e Rhodesia (attuale Zimbabwe) vennero affiancate dalle colonie dei territori caraibici e del pacifico, dove le Figi furono le prime (1970) e il Vanuatu l’ultimo nel 1980. Metaforicamente, il trasferimento di Hong Kong alla Cina nel 1997 sancì definitivamente la fine dell’Impero, sostituito dal Commonwealth delle Nazioni, già nato nel 1926, come libera associazione di Stati indipendenti. Parte dei 56 Stati del Commonwealth rientrano in quello che è definito Reame del Commonwealth, dunque i 14 Stati (oltre il Regno Unito) che ancora riconoscono il sovrano britannico come Capo di Stato, tra di essi Canada e Australia

Il Commonwealth delle Nazioni, la decolonizzazione secondo le Nazioni Unite. 

Di Elisa Quadrelli ed Emanuele Lo Giudice

In passato conosciuto come Commonwealth Britannico, ad oggi il Commonwealth delle Nazioni comprende 56 Stati, quasi tutti appartenenti all’ex Impero Britannico (Mozambico, Ruanda, Gabon e Togo sono l’eccezione). Nata come organizzazione intergovernativa su base volontaria, ad oggi conta 2 miliardi di persone, unite nella persecuzione di una cooperazione economica e culturale. Nel progressivo sfaldamento dell’impero britannico, la decolonizzazione ha portato all’indipendenza le varie colonie inglesi e il Commonwealth a divenire punto centrale della politica estera inglese. Il ruolo della decolonizzazione, che non ha riguardato solo il Regno Unito, è stato ampiamente discusso anche dalle Nazioni Unite, in continuo ampliamento nella seconda metà del novecento. 

Le Nazioni Unite promuovono la decolonizzazione a partire dal principio di equi diritti e autodeterminazione delle persone. Nell’undicesimo capitolo dello Statuto delle Nazioni Unite si stabiliscono i principi guida per il contributo alla decolonizzazione da parte dell’Organizzazione stessa. 

In merito ai territori ancora amministrati da agenti esterni, le Nazioni Unite considerano gli interessi dei territori “dipendenti” come di importanza capitale. L’Organizzazione si riferisce a questi paesi come Non-Self-Governing Territories- NSGTs e vuole promuoverne lo sviluppo sociale, economico, educativo e politico, nonchè il progresso. Vuole inoltre assicurare alle persone di tali paesi la possibilità di avere appropriate forme di governo. Chi amministra NSGTs è quindi tenuto a rendere conto all’ONU rispetto questi parametri e rispetto le condizioni di tali territori. L’impegno delle Nazioni Unite in questi termini inizia nel 1960, dopo un’assemblea generale che proclamó la necessità di porre fine al colonialismo in ogni sua forma e manifestazione.

Due sono i principali Committees (comitati) delle Nazioni Unite che si occupano di decolonizzazione: 

The Special Committee on the Situation with regard to the implementation of the Declaration on the Granting of Independence to Colonial Countries and Peoples, altrimenti conosciuto come Special Committee on Decolonization, o, brevemente, C-24.

Immagine dal sito ufficiale delle Nazioni Unite

Special Political and Decolonization Committee (Fourth Committee), uno dei committees principali dell’Assemblea Generale (General Assembly- GA) che fa da collegamento tra il C-24 e quest’ultima.

Fin dalla nascita dell’ONU piú di 80 colonie, comprendenti 750 milioni di persone, hanno guadagnato la loro indipendenza. Ad ora rimangono 17 Non-Self-Governing Territories (NSGTs) in tutto il mondo. 

I Non-Self-Governing Territories sono definiti come “territori le cui persone non hanno ancora ottenuto una completa forma di auto-governo”. Gli stati membri che hanno o si assumono la responsabilità per l’amministrazione dei NSGTs sono chiamati Poteri amministrativi. 

Immagine dal sito ufficiale delle Nazioni Unite

Per una lista piú accurata degli NSGTs rifarsi al sito web https://www.un.org/dppa/decolonization/en/nsgt

Uno sguardo antropologico

Di Elisa Quadrelli

Roberto Malighetti, professore ordinario di discipline demoetnoantropologiche all’Università di Milano Bicocca ci racconta come il colonialismo sia legato all’antropologia attraverso un breve testo: Post-colonialismo e post-sviluppo: l’attualità dell’antropologia coloniale.

Malinowski

Malighetti spiega come l’antropologia sia stata fondamentale per porre in essere il dominio coloniale nelle sue diverse modalità. Furono soprattutto gli antropologi britannici a trovarsi a stretto contatto con l’amministrazione coloniale, nell’intenzione di studiare “il selvaggio”. Il legame stretto tra la disciplina antropologica e il fenomeno storico è stato evidente al punto da chiamare la disciplina “applied colonialism”. Il rapporto tra amministrazione coloniale e antropologi rimaneva comunque complicato in quanto la traduzione di una disciplina quasi umanistica in tecnicismi burocratici non era semplice. Spesso questa difficile comunicabilità rispetto alle applicazioni dell’antropologia portavano a resistenze da parte dell’amministrazione coloniale. Le contraddizioni e le problematiche dell’amministrazione coloniale non erano quindi oscure agli antropologi, tanto che Malinowski (antropologo polacco celebre per i suoi studi etnografici) scrive del “caos di una cattiva amministrazione e di una politica predatoria”. Lo stesso Malinowski ebbe ad osservare che “l’uomo bianco” aveva sui paesi colonizzati un impatto negativo, producendo impoverimento, disorganizzazione, addirittura massacri di massa. L’antropologia però rimaneva uno studio tecnico e scientifico rispetto le modalità amministrative coloniali. Studi sociali che riguardassero oppressione e razzismo non erano contemplati dalla disciplina che vedeva i difetti del colonialismo come errori tecnici, collaterali. 

Lo studio dei popoli tribali era volto ad una modernizzazione dei governi coloniali, per spingerli verso una vita economica secondo gli antropologi più sviluppata. Per fare ciò si usavano però forme di governo indiretto, gestito formalmente dai nativi stessi, di cui si diceva voler mantenere valori e cultura. 

Le relazioni di potere tra dominati e dominanti sono tuttora oggetto di studio dell’antropologia: un sistema fatto di relazioni asimmetriche è base strutturale per gli studi antropologici. Si potrebbe dire che ad ora l’antropologia abbia come oggetto di studio le spinte trasformative verso un sistema economico di tipo globale. Diversi autori considerano le pratiche di sviluppo attuali attuate nei confronti di paesi ritenuti sottosviluppati come nuove forme di colonialismo. Il cambiamento proposto a questi paesi dai programmi di sviluppo va pari passo con le tecnologie moderne, con mire evoluzionistiche che cosí facendo rimangono unilineari.

Il dibattito odierno, si può incolpare esclusivamente la Corona o il sistema di Westminster rientra nella questione del colonialismo?

È lecito porsi delle domande su quale sia stato il ruolo della regina Elisabetta II nel districarsi delle vicende dell’imperialismo britannico, ma è anche giusto distribuire le responsabilità tra i diversi attori istituzionali che rientrano nella questione del colonialismo. Le responsabilità della corona non si eguagliano a quelle dell’esecutivo, a differenza di quello che erroneamente si crede essere il funzionamento del sistema inglese. Se in tempi addietro la corona deteneva un potere istituzionale pesantemente rilevante, negli ultimi decenni il suo ruolo è andato progressivamente assottigliandosi. La corona, con ruolo simbolicamente di mantenimento dell’equilibrio istituzionale, viene sì informata e ascoltata, ma le decisioni esecutive rimangono in capo al governo inglese, su cui la corona ha limitato potere d’agire. Nulla toglie lo strizzare l’occhio al colonialismo nel XIX secolo perché fondamentale per la prosperità dell’Impero Britannico, ma durante il regno di Elisabetta II si è visto un ribaltamento della situazione, che si può identificare in un riequilibrarsi ed assestarsi su una posizione meno colonialista e più pacifica.

Sia mai che la longevità possa portare saggezza? avessimo posto la domanda alla sovrana in tempi giusti, magari avremmo ricevuto una risposta!

Scritto da Elisa Quadrelli, in collaborazione con Emanuele Lo Giudice

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