L’Olocausto sotto un’altra prospettiva: come l’hanno vissuto i bambini?

di Giorgia Lelii
15 Min.

La Seconda guerra mondiale è responsabile di milioni e milioni di morti, senza una causa giustificata apparente. Innumerevoli persone che hanno perso i propri familiari per un uomo ambizioso, un dittatore che ha imposto l’ordine del mondo da un giorno all’altro. Quando, nel 1945, le autorità tedesche sventolarono bandiera bianca, il danno era già stato fatto. Ebrei, non-ebrei, disabili, omosessuali, donne, bambini, uomini deportati avevano già perso la vita. In pochi sono sopravvissuti, in pochi raccontano la propria storia, in pochi conducono ancora una vita normale.

Testi scritti e racconti agghiaccianti aiutano, seppur in triste maniera, a mantenere il ricordo di questa strage: il 27 gennaio è dove tutti prendono parte emotiva a questa giornata del ricordo, leggendo opere e guardando film a tema, per non dimenticare. I bambini erano forse quelli più spensierati: alcuni genitori cercavano di adattare la realtà per loro. Mettevano su falsi sorrisi perché i loro figli restassero innocenti, proprio come nel film “La vita è bella“. Tuttavia, c’erano ragazzi più grandi che purtroppo comprendevano la gravità della situazione.

La condizione dei bambini una volta arrivati a destinazione (lager, ghetto, campo di concentramento…) era molto più che tragica. Se avessero avuto un’età compresa tra i 12 e i 18 anni, le autorità tedesche li avrebbero presi per i lavori forzati o esperimenti medici. Non era lo stesso per i più piccoli.

Il loro destino poteva essere diverso. Subire un’uccisione immediata appena arrivati al campo di sterminio, oppure appena nati. Alcuni riuscivano a sopravvivere per la bontà che gli altri prigionieri dimostravano, nascondendoli da un’eventuale cattura e dalle camere a gas. Nella maggior parte, i piccoli morivano per malnutrizione o per cattiva salute, dovuta alle pessime condizioni in cui erano costretti. I soldati tedeschi rimanevano indifferenti alle morti, poiché li consideravano esseri improduttivi o “inutili bocche da sfamare“.

Durante l’Olocausto, almeno 1.100.00 tra bambini e adolescenti persero la vita. In questo caso, ciò che ci aiuta a ricordare sono i diari scritti proprio dai più piccoli nei campi di concentramento. Semplicemente con una penna, i giovani raccontavano delle loro esperienze, le atrocità subite quotidianamente, i traumi e le emozioni sofferti. Ci sono molte pagine scritte da migliaia di piccole mani: chi era profugo, chi nei ghetti, chi in clandestinità.

Elizabeth Kaufmann Koenig

Elisabeth era una ragazza che sopravvisse alla guerra da profuga. Nacque nel 1924 da una famiglia austriaca di origine ebraica, tuttavia non religiosa. Suo padre fu un noto giornalista, per cui vissero una vita agiata a Berlino dal 1930 al 1933 circa. Proprio per le convinzioni politiche “non gradite” del padre e le misure antiebraiche del regime nazista, andarono a vivere a Vienna. Quando il paese fu annesso alla Germania, nel 1938, il clima divenne più violento e la famiglia si trasferì a Parigi.

Nonostante le difficoltà, gli interessi culturali e lo status di vita della famiglia era abbastanza rilevanti. Infatti, Elisabeth parlava fluentemente francese e tedesco. Allo scoppio della guerra, avvenne l’arresto del padre e del fratello, in quanto “stranieri“, successivamente internati a Melay-du-Maine. Nel 1940, Elisabeth e la madre fuggirono verso la Francia meridionale: trovarono rifugio a Le Chambon-sur-Lignon presso il pastore André Tocmé. Egli era un grande aiuto, poiché offriva una vasta catena di soccorso agli ebrei perseguitati in Europa.

Nel novembre del 1941, il padre ottenne un visto speciale d’ingresso negli Stati Uniti per l’intera famiglia: i Kaufmann giunsero in America ai primi del 1942, sfuggendo così alle deportazioni. Il fratello tornò in Francia, nel 1944, come soldato dell’esercito americano, cadendo in combattimento. Elisabeth sposò con Ernst Koenig nel 1947, conosciuto già in Austria prima della guerra e sopravvissuto come combattente nell’esercito ceco in esilio.

La ragazza iniziò a scrivere un diario a Parigi, nel 1940: spiegava minuziosamente i giorni dell’invasione tedesca in Francia fino al 14 giugno dello stesso anno. I tre quaderni dove scrisse rimasero sempre in suo possesso, finché non li donò al United States Holocaust Museum, nel 1990. Insieme a questi, consegnò anche delle foto e materiali relativi all’epoca, rilasciando anche una dichiarazione-intervista sulla propria esperienza.

Miriam Wattenberg

Quella di Miriam fu una delle pochissime testimonianze scritte pervenute riguardo il ghetto di Varsavia. Ella nacque nel 1924 a Lodz, in Polonia: la sua famiglia era piuttosto facoltosa, in quanto suo padre era proprietario di una galleria d’arte in città. Quando i tedeschi invasero il paese, i Wattenberg si trasferirono a Varsavia, per poi essere portati nel ghetto della capitale.

Miriam iniziò a scrivere il suo diario dal 10 ottobre 1939 al 5 marzo 1944. In queste pagine, la ragazza descrisse nel dettaglio tutte le peculiarità dell’Olocausto di cui era testimone: intimidazioni, aggressioni, lavoro forzato, uccisioni sommarie, deportazioni di massa. Prima di essere portata nel quartiere ebraico, raccontò di come avevano reagito gli ebrei alla notizia dell’instaurazione del ghetto:

Le strade sono vuote. Si svolgono riunioni straordinarie in ogni casa. La tensione è straordinaria. Alcune persone chiedono di organizzare una protesta. Questa è la voce dei giovani; i nostri anziani considerano questa idea pericolosa. Siamo tagliati fuori dal mondo.

Diario, 20 novembre 1940
Ghetto di Varsavia distrutto.

Successivamente, nel 1942, l’intera famiglia e altri stranieri furono portati nella prigione di Pawiak, Varsavia: dalla sua finestra, la ragazza osservava con orrore le fucilazioni degli ebrei o una loro adunata per i trasporti verso eventuali campi di sterminio o concentramento. Il 18 gennaio 1943 la famiglia fu inviata a Vittel, Francia, in un campo di internamento per britannici e americani: infine, sbarcarono in libertà a New York dopo uno scambio di prigionieri tedeschi di guerra.

Miriam arrivò in America con ben dodici quaderni di diario in valigia. Incontrò il giornalista polacco Samuel L. Shneiderman, che era sempre alla ricerca di persone che lo aggiornassero sulla situazione in Polonia. Egli capisce subito l’importanza che gli scritti hanno, quindi convinse la ragazza a lavorare con lui nella revisione e pubblicazione a puntate del diario sul Der Morgen Zshurnal, un giornale popolare. Miriam assunse lo pseudonimo di Mary Berg, per proteggere lei e la sua famiglia da eventuali persecuzioni future. Ebbe subito un enorme successo, e “Il Diario di Mary Berg” fece la sua comparsa anche in altri paesi oltre l’America: precedette di ben otto anni la pubblicazione de “Il Diario di Anna Frank”. Miriam morì a York il 1 aprile 2013.

Annelies Marie Frank

Anna Frank nacque il 12 giugno 1929 a Francoforte sul Meno, Germania. Di tutti i ragazzi autori di diari durante l’Olocausto, lei è sicuramente la più conosciuta: figlia di Otto ed Edith Frank, aveva una sorella maggiore di nome Margot. A causa del clima di odio nei confronti degli ebrei e la difficile situazione economica, i Frank decisero di trasferirsi ad Amsterdam, in Olanda, nella speranza di riuscire a sopravvivere a ciò che sarebbe venuto.

Scoppiò la Seconda guerra mondiale e tutto andò in frantumi. Le leggi antisemite cominciarono a togliere diritti agli ebrei, privandoli della loro stessa libertà decisionale. Niente più passeggiate nei parchi, cinema, costretti inoltre a portare la stella di Giuda sui vestiti per essere riconosciuti. Quando, nel 1942, Margot ricevette una lettera per andare a lavorare in un campo di lavoro in Germania, i genitori s’insospettirono e iniziò il loro periodo di clandestinità.

Aiutati da alcuni collaboratori, i Frank restarono chiusi in un nascondiglio nel retro dell’edificio dell’azienda di Otto. Successivamente, anche altri quattro clandestini si unirono: Hermann, Auguste e Peter van Pels, e Fritz Pfeffer (con il quale Anna non ebbe il migliore dei rapporti). Gli otto dovevano rimanere in silenzio durante il giorno per non destare sospetti o attirare l’attenzione: la cosa fu difficile per Anna. Essendo all’inizio della sua adolescenza con un carattere estroverso ed esuberante, spesso si trovava a litigare con la madre per questo suo atteggiamento irruente: era frustata dal fatto che dovesse sempre atteggiarsi in maniera perfetta di fronte ai genitori e similmente a Margot, timida ed esemplare.

Per il suo tredicesimo compleanno, Anna ricevette un piccolo quaderno a quadretti rossi e bianchi, che inizierà ad utilizzare per scrivere il suo diario. In esso racconta periodi di convivenza con gli altri, cosa faceva durante il giorno, i momenti di silenzio e paura quando si sentivano le truppe marciare o una bomba venire sganciata, persino il suo progressivo innamoramento nei confronti di Peter, e anche della sua vocazione alla scrittura. Altri aspetti interessanti che si prospettano dalle sue parole sono molti: la maturazione morale e umana dell’autrice e contiene anche considerazioni di carattere storico e sociale sulla guerra, sulle vicende del popolo ebraico e sulla persecuzione antisemita, sul ruolo della donna nella società.

L’ultima pagina del diario di Anna Frank.

Il 4 agosto 1944 la Gestapo (polizia segreta tedesca) fece irruzione nel nascondiglio e arrestò i clandestini, insieme a due aiutanti: la famiglia non aveva alcuna traccia, alcun sospetto, e ad oggi nessuno sa chi sia stato ad esporre denuncia. Le autorità deportarono i clandestini ad Auschwitz: mentre Edith morì quasi subito dopo l’arrivo al campo, Margot e Anna furono deportate al campo di Bergen-Belsen. Le due sorelle morirono di tifo nel febbraio del 1945, poco tempo prima dell’arrivo delle truppe sovietiche.

Di tutti i clandestini, Otto Frank fu l’unico a sopravvivere all’Olocausto. Una volta riacquisita la libertà, tornò ad Amsterdam con il peso e la tristezza della sua intera famiglia deceduta a causa dell’orrore della guerra. Miep Gies, sua ex dipendente ed aiutante, gli consegnò gli scritti di Anna e il suo diario, recuperati poco prima che le autorità naziste confiscassero tutto nell’irruzione del ’44. Leggendo le pagine scritte dalla figlia, Otto rimase profondamente colpito da tutto il suo contenuto: convinto da alcuni amici a pubblicarlo, migliorò la sintassi dello scritto e rimosse alcuni particolari fin troppo intimi della famiglia.

Otto Frank all’apertura del museo di Anna Frank.

La pubblicazione del libro avvenne nel 1947, in Olanda: ebbe subito un successo clamoroso e conosciuto in molti altri paesi. In tutto il mondo si viene a conoscere la vicenda di Anne. Nel 1960, il nascondiglio apre le sue porte come un museo: la Casa di Anne Frank. Otto partecipa alle attività della Fondazione Anne Frank e del Museo fino al 1980, anno della sua morte: si augura che i lettori del diario siano consapevoli dei pericoli rappresentati dalla discriminazione, dal razzismo e dall’antisemitismo

Per non dimenticare, sarebbero ancora infinite le storie da raccontare, storie vere di ragazzini che hanno dovuto affrontare l’orrore puro. Ogni quaderno è un frammento di una giovane vita perseguitata. Nonostante siano opere “individuali”, messe insieme riescono ad offrire una visione ampia e variegata di ciò che dovevano subire ogni giorno. Tu, lettore, potresti provare tristezza e dispiacere per questo pezzo di storia recente, particolarmente visto sotto gli occhi di quelli più giovani. Però, fai un passo indietro. Fai un passo indietro e mettiti nei panni di questi scrittori. Ancora tristezza e dispiacere inconsapevole?

Scritto da Giorgia Lelii


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