La resistenza silente, le donne del passato

di Carola Antonucci
5 Min.

Negli anni a seguire la seconda Grande Guerra si è parlato molto del ruolo della resistenza, tramandato da generazioni in generazioni e dai libri di storia adottati come libri di testo nelle scuole. Eppure, di questa Resistenza, i protagonisti erano sempre uomini. Uomini pronti a uccidere e farsi uccidere in nome di un ideale, con coraggio e devozione. Ma siamo sicuri che i veri protagonisti fossero loro?

Al di là dei libri, storie vere di donne forti

Secondo alcuni dati, le donne che parteciparono alla resistenza furono circa 70 mila, eppure la loro memoria è giunta a noi solo di recente, aiutati da decenni in cui si sta cercando di abbattere stereotipi e patriarcato.

Nonostante le testimonianze come il romanzo di Renata Viganò “L’Agnese va a morire” (1949) e il documentario “Le donne della resistenza” di Liliana Cavani (1962), si è iniziato a normalizzare il ruolo della donna solo decenni più tardi, intorno agli anni ’60. A chiarire ciò la storica Simona Lunadei nel documentario “Storia e memoria“: «a partire dagli anni sessanta, con le lotte per l’autodeterminazione femminile e i cambiamenti profondi in corso nella società, si cominciò a rivendicare un ruolo per le donne che affondasse anche nella storia della repubblica e nella resistenza».

Se fino ad allora molte donne non avevano sentito il bisogno di rivendicare un loro riconoscimento, il loro aiuto e potere in un pezzo importante di storia, era semplicemente perché, in fondo, sentivano di aver fatto solo quanto dovevano per salvare le sorti di un Paese e di migliaia di vite.

Ma quale ruolo hanno davvero avuto nella resistenza?

le donne della resistenza, frame di C'è ancora domani
Frame del film “C’è ancora domani”, donne in fila per il voto del 1946 © Cinematografo

Nella maggiorparte dei casi, le donne della resistenza aiutavano i partigiani, portavano cibo, giornali, locandine di propaganda e anche armi. Tutto questo in preda al pericolo, rischiando violenze sessuali, torture e nel peggiore dei casi anche la morte.

Ma non solo, molte donne hanno nascosto, protetto e, chi aveva competenze infermieristiche e mediche, anche curato dalle ferite di guerra. Nonostante questo, come già detto, poche donne avevano interesse ad essere riconosciute come partigiane. Come spiega la storica Lunadei, si poteva essere ufficialmente riconosciute come partigiane solo se si partecipava alla lotta armata per almeno tre mesi all’interno di un gruppo organizzato riconosciuto.

Se una donna faceva la staffetta difficilmente poteva documentare la sua attività partigiana, questo ha significato che pochissime sono state riconosciute come partigiane e sono entrate nel Pantheon della resistenza

Simona Lunadei nel documentario

Erano, quindi, donne forti, «armate o disarmate, d’ogni fascia sociale e di ogni professione, giovani e meno giovani, meridionali e settentrionali, antifasciste per scelta personale, tradizione familiare o più semplicemente “di guerra”, destinate a fare dell’opzione di lotta un elemento determinante della propria esistenza o un (mai semplice) passaggio biografico estemporaneo, le donne non offrono alla Resistenza solo un contributo, ma partecipano attivamente, ponendosi come elemento imprescindibile della lotta stessa nelle sue varie declinazioni». (Associazione partigiani d’Italia).

Concludendo

Appurato ciò, andiamo a vedere come il loro ruolo sia cambiato a seconda del periodo cronologico e al luogo in cui si sono trovate a “combattere”. Si pensi, infatti, alle partigiane di Napoli che nel 1943 fanno svuotare camion tedeschi già pieni e favorendo, così, la ribellione cittadina. O ancora, a Carrara che, nel 1944, impediscono ai tedeschi la ritirata lungo la linea Gotica.

Queste donne hanno visto, nella Resistenza, un modo per essere libere e urlare al mondo il loro valore e i loro ideali ed è giusto, oggi, ricordare il loro ruolo fondamentale e principale nella lotto alla libertà del Paese. Al loro grido di coraggio, che risponda il nostro della memoria.

Di Carola Antonucci.


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