Il fallimento di Camp David

di Mirko Aufiero
5 Min.

Era l’11 luglio del 2000 quando il presidente statunitense Clinton, il primo ministro israeliano Barak e il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Arafat si riunirono a Camp David per trovare una soluzione al conflitto israelo-palestinese.

Nella residenza presidenziale nel Maryland il vertice durò due settimane – fino al 24 luglio – al termine delle quali le parti non riuscirono a raggiungere un accordo. Il fallimento di questi negoziati chiuse di fatto il processo di pace iniziato ad Oslo nel 1993, e coincise con lo scoppio della seconda intifada.

Verso il vertice

Ehud Barak vinse le elezioni israeliane il 17 maggio 1999, sostituendo l’uscente primo ministro Netanyahu. Ex capo di stato maggiore e membro del partito laburista, Barak si pose in continuità con Yitzhak Rabin (il primo ministro israeliano ucciso da un estremista ebraico nel 1995). Tale continuità si tradusse in una linea politica intenzionata a proseguire il processo di pace iniziato ad Oslo con Rabin, e nel ritiro delle truppe israeliane dal Libano meridionale.

Dall’altra parte, Yasser Arafat era il leader del partito al-Fatah, presidente dell’Olp e dal 1994 presidente e primo ministro dell’Autorità nazionale palestinese, creata con gli accordi di Oslo. Proprio l’onda lunga del successo di Oslo caratterizzò gli anni ’90, durate i quali sembrò possibile trovare una soluzione negoziale al conflitto.

Il 5 luglio 2000 il presidente statunitense Bill Clinton invitò i due leader a Camp David, desideroso di chiudere il proprio mandato con un successo storico. I precedenti non mancavano; proprio a Camp David nel 1978 il presidente Jimmy Carter mediò un accordo di pace tra Egitto e Israele.

I negoziati

Il vertice tra i tre leader prese il via l’11 luglio a porte chiuse. Numerose le questioni sul piatto, tra cui lo status di Gerusalemme, la restituzione della Cisgiordania e la sovranità sulla spianata delle moschee.

L’offerta di Barak ad Arafat consistette nella restituzione ai palestinesi di alcune zone di Gerusalemme Est, che sarebbero diventate la capitale del nuovo Stato palestinese, di circa il 92% della Cisgiordania – la restante percentuale era occupata dagli insediamenti israeliani – l’amministrazione congiunta dell’Haram al-Sharif e il rimpatrio di circa 10mila profughi.

A quest’offerta Arafat disse di no per diversi motivi. Il nuovo Stato palestinese disegnato da Barak non avrebbe avuto continuità territoriale, ma sarebbe stato diviso in enclave separate da strade sotto il controllo israeliano. Israele si rifiutò inoltre di riconoscere la propria responsabilità morale e politica nelle vicende del popolo palestinese.

Assente anche un accordo per il diritto al ritorno dei profughi. Infine, Arafat chiedeva la sovranità su Gerusalemme Est, compreso l’Haram al-Sharif. Si tratta di un luogo sacro sia per l’ebraismo che per l’islam, ospitando il Muro del Pianto, la Cupola della Roccia e la Moschea Al-Aqsa.

Le conseguenze del fallimento di Camp David

Una volta concluso il vertice, sia Clinton che Barak addossarono le responsabilità del fallimento su Arafat, il quale avrebbe perso un’occasione storica per raggiungere la pace e avrebbe mostrato il suo “vero volto“. Ossia, avrebbe rinunciato a raggiungere una soluzione negoziale per tornare alla lotta armata.

Iniziarono a diffondersi così i “miti di Camp David“, delle narrazioni sui negoziati che presentavano le offerte di Israele come estremamente generose. Dall’altra parte, il rifiuto palestinese venne legato alla gestione di Gerusalemme, ponendo la religione come motore delle azioni di Arafat. Il leader dell’Anp venne inoltre accusato da Barak di volere una soluzione ad un solo Stato (palestinese).

Il diffondersi di questo racconto di Camp David è stato aiutato dall’obbligo di non rivelare i contenuti dei negoziati, che scadde soltanto un anno dopo. Solo a partire da allora diverse personalità cercarono di smontare queste tesi, ma ormai, nel pieno della seconda intifada era troppo tardi.

Scoppiata in seguito alla visita di Ariel Sharon all’Haram al-Sharif del 28 settembre 2000, la seconda intifada assunse i contorni di una profezia autoavverante. La narrazione israeliana di un Arafat intenzionato a tornare allo scontro sembrava trovare conferma. In realtà, oggi sappiamo che le autorità palestinesi tentarono di impedirla, ma senza successo.


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