SaturDie Ep.10 – Marta Russo: l’omicidio della Sapienza

di Gaia Vetrano
25 Min.

Immaginate di stare girando per “La Sapienza”. L’università statale romana vede ogni anno, dal 1303, migliaia di studenti per i suoi corridoi. Fu per volere di Bonifacio VIII che prese vita questa splendida struttura, con il desiderio di poter infondere alle generazioni più giovani e volenterose la conoscenza delle più alte discipline, così da poter mettere alla prova il proprio intelletto.

Immaginate sia maggio. Frequentate il corso di giurisprudenza e già iniziate a respirare l’aria della famigerata sessione estiva. Tuttora, in qualche aula, qualcuno sta dando esami. Chi mette piede dentro “La Sapienza” sa che sta incominciando a tessere il suo illustre futuro.

Molti membri della classe dirigente italiana hanno frequentato la vostra stessa facoltà e, nonostante gli anni Novanta siano stati segnati da eventi sconvolgenti, quali Tangentopoli, il 1997 porta aria di novità.

Immaginate di star camminando con una vostra amica e collega tra le pareti in marmo bianco, i grandi viali colonnati e l’enorme fontana con la statua di Minerva, simbolo dell’ateneo. Assieme parlate di uscite, di ex, di pettegolezzi e di ragazzi. Ma anche dei nuovi argomenti delle materie che state studiando. Dei fondamenti del diritto che sostengono il paese democratico in cui vivete. Di come alternate, pur sempre con difficoltà, la vita universitaria e quella sociale, destreggiandovi tra impegni sportivi e scadenze istituzionali.

Questa potrebbe sembrare la banale routine di un qualsiasi ventenne che decide di proseguire i suoi studi. D’altro canto, le nostre vite sono tutte scandite dagli stessi rimi: sveglia, lezione, pranzo e poi il pomeriggio dedicato allo studio e allo sport.

Quel giorno è un venerdì: si respira già l’aria del sabato. In gruppo si prova a capire cosa fare per passare la serata del giorno dopo. In quale locale di Trastevere andare o se si preferisce una pizza a casa di qualche amico. Qualcuno propone di recuperare l’ultimo film uscito a gennaio di Lynch.

Nel frattempo, gli alberi di fronte il vostro ateneo stanno ritornando verdi, come segno dell’arrivo della bella stagione. Quanto può essere veloce il tempo che passa: due giorni fa le foglie cadevano grigie dagli alberi. Adesso gli uccellini cinguettano di nuovo e, le aule della “Sapienza”, sono nuovamente illuminate dal sole di metà mattinata.

Quanto può essere sottile il confine tra un secondo e l’altro? Quello tra una stagione e l’altra? Quanto quello tra la vita e la morte?

Immaginate di star girando per i corridoi del polo di Lettere e Filosofia alla ricerca di qualche aula studio. Quanto può essere sottile il confine tra i minuti che passano tra loro. Che separano la tranquillità dal terrore, dalle grida e dalla paura?

Immaginate di star scendendo le scale e di scontrarvi proprio con un vostro collega fuori corso. Uno di quelli socievoli che conosce tutti. È concitato, respira affannosamente. Ha le lacrime agli occhi. Tra le tante parole confuse mormora di proiettili, di un cecchino e di fascisti. Davanti a sé, qualche minuto fa, ha visto la morte.

Dall’altra parte delle mura, in un vialetto che collega le facoltà di Scienze Statistiche e Scienze Politiche al polo di Giurisprudenza, altre due studentesse stanno girando e chiacchierando: sono Marta Russo e Iolanda Ricci.

Allo scoccare delle 11.42, la prima delle due cade a terra. La sua amica, la Ricci, si china su di lei per capire cosa abbia. Poi, qualcosa di caldo le sporca la mano e i vestiti: sangue. Un bossolo ha impattato contro il cranio di Marta. Un proiettile vagante per l’università.

Un solo grido sovrasta le sirene della polizia e dell’ambulanza, quello di Iolanda, che continua a chiedere aiuto. Piange e si dispera, mentre si chiede chi possa aver sparato a Marta.

La sua amica verrà portata in ospedale, dove la TAC conferma la presenza di un proiettile proprio sopra l’orecchio. La giovane entra in coma profondo, dalla quale non si sveglierà mai.

A partire dal giorno successivo, saranno anche i giornali a chiedersi chi abbia ucciso la giovane Marta Russo.

Quanto può essere sottile il confine tra la vita e la morte? Forse, 1,1 millimetro. Quanto un proiettile.

Un delitto senza movente

La morte di Marta Russo genera sin da subito molteplici interrogativi. I media ne parlano come il delitto della Sapienza.

Chi può mai volere la morte di una studentessa ventiduenne ex campionessa di scherma? Marta ha il viso dolce, gli occhi da cerbiatta marroni come l’ebano, i capelli biondi come il grano e lo sguardo di chi ha tanti obiettivi da raggiungere. Di chi è sempre disposto ad aiutare gli altri. Già a 15 anni sapeva che, in punto di morte, avrebbe donato gli organi.

Immediatamente arrivati sulla scena del crimine, per terra si cercano il bossolo o le tracce del killer. Gli investigatori transennano il luogo e bloccano il passaggio agli studenti spaventati. “Andate via, non c’è nulla da vedere!” intimano ai ragazzi che, incuriositi, camminano a testa bassa, sperando di trovare qualcosa. Non sanno che, per rivelare qualche indizio, bisogna guardare in alto.

Viene da subito ipotizzata la traccia politica.

Aldo Moro

La data di questo omicidio si collega inquietantemente con altri tre casi di cronaca nera avvenuti negli anni precedenti: il ritrovamento del corpo di Aldo Moro, ucciso dalle Brigate Rosse e di Peppino Impastato, assassinato dalla mafia. Ma anche l’anniversario della morte di Giorgiana Masi, studentessa uccisa il 12 maggio 1977 durante una manifestazione del Partito Radicale. Anche lei per colpa di un proiettile vagante.

Eppure, nessuna delle due colleghe appartiene a movimenti politici studenteschi. Ciò esclude in parte l’ipotesi di terrorismo politico, a meno che non si tratti di uno scambio di persona.

Marta, quel giorno, gira infatti con Iolanda Ricci, che non è un’adolescente come le altre. Lei, in un’Italia dove il terrorismo rosso è padrone, è la figlia di Renato Ricci, direttore del Carcere di Rebibbia. Un uomo di destra, appartenente ad “Alleanza Nazionale”. Lei non è una studentessa come le altre. Con le amiche non parla solo di ragazzi, ma delle minacce di morte telefoniche che ogni giorno la terrorizzano. Forse una vendetta trasversale? O qualcosa di analogo.

Lo scambio di persona potrebbe eventualmente riguardare la figlia di un testimone sotto protezione messinese, frequentante sotto falso nome il corso di filosofia del diritto. Questa giovane ha infatti i capelli biondi e il fisico simile a quello di Marta. Da qui, i sicari mafiosi avrebbero confuso le due.

Attorno al fatto di cronaca in sé, vi è la condanna da parte dei giornali verso l’università e la Procura, che è intimata a risolvere il caso. Per Nicolò D’Angelo, il dirigente della squadra mobile, la giustizia avrebbe vinto, anche a costo di smantellare l’ateneo mattone per mattone.

Davanti all’omicidio di una ventenne, che non è il furto di una caramella in un supermercato, la Sapienza non è più il tempio del Diritto. Ma l’ennesima sterile scena del delitto.

Nel frattempo, il 15 maggio, durante la partita della Lazio, viene affisso uno striscione che riporta: “Marta, vinci”. Eppure la battaglia, stando alle indagini, è contro degli ignoti. Nulla porterebbe al motivo per cui la Russo sarebbe stata uccisa. Un delitto senza movente.

In alto gli occhi, verso le finestre

Sul luogo del delitto, insistono tre fabbricati: uno a destra, uno a sinistra e quello immediatamente frontale. Uno dei primi luoghi perquisiti sono i bagni della Sapienza: questi hanno dei finestroni perfetti, che si affacciano sul vialetto. Indubbiamente una posizione interessante.

Dopo averli smontati, ci si accorge che si tratta di un clamoroso buco nell’acqua.

Nel frattempo arriva l’autopsia del corpo di Marta: la giovane viene colpita da un bossolo di un calibro 22. La sua particolarità? Si frantuma. Ciò vuol dire che è un proiettile da tiro, usato per gli addestramenti, o da chi pratica sport che implicano l’uso di armi da fuoco. Chi poteva essere detentore di armi tra i dipendenti della Sapienza?

A seguire viene perlustrato il ripostiglio sotterraneo della ditta di pulizie Pul.Tra, che porta a un indizio chiave: viene ritrovato un tubo metallico compatibile alla costruzione di un silenziatore.

Questa diventa oggetto di indagini. Alcuni dei dipendenti sono infatti in possesso di fucili, carabine ad aria compressa, pistole giocattolo, confezioni di cartucce con cui si divertivano a sparare dentro l’università. Delle armi, purtroppo, non compatibili per calibro e potenza a quella che uccise Marta.

Ovviamente, l’idea che dentro un’università come la Sapienza ci fosse un movimento tale di persone con armi che si diverte a giocare al Far West con obiettivi fantasma non rassicurò l’opinione pubblica. Bisogna trovare una nuova pista per distrarre i giornali.

Ascoltando le conversazioni telefoniche dei dipendenti della Pul.Tra, si mise a fuoco la presenza di un altro individuo collezionista di armi: si tratta del bibliotecario della facoltà di Lettere della Sapienza, ossia Salvatore Carmelo “Rino” Zingale. Addirittura a quest’ultimo venivano commissionati bossoli artigianali e silenziatori. Tra le armi in suo possesso anche una calibro 22. Anche questo è pero’ estraneo alla vicenda perché in possesso di un alibi.

Per i primi quindici giorni, le indagini rantolano nel buio. Poi, gli investigatori si tolgono gli occhiali da sole e iniziano a guardare verso il cielo. Tutto porta a una necessaria analisi balistica della traiettoria dello sparo, per poter così risalire al luogo dove deve essere partito il colpo.

La priorità è quella di suddividere gli edifici, escludendo gli infissi chiusi o bloccati da armadi o librerie. Vengono richieste anche delle analisi della scientifica, così da poter rilevare eventuali tracce di polvere da sparo. Su 53 analisi effettuate, risultano positive quelle della finestra uno, tre, quattro, sei, sette e otto dell’istituto di Filosofia del diritto.

In alto a destra, questo è il cammino, e poi dritto fino alle finestre del dipartimento di Filosofia del Diritto.

I misteri degli assistenti di Filosofia del Diritto della Sapienza

Quattro assistenti entrano in un’aula del dipartimento di Filosofia del Diritto. Poi lo scoppio di una pistola.

Le indagini ritrovano particelle di bario e antimonio, metalli pesanti e di ferro. Queste sono compatibili allo scoppio di un’arma da fuoco e, data la preponderanza di quest’ultimo elemento chimico, la pistola potrebbe essere arrugginita.

Si tratta della prima chiusura di un cerchio, da cui nasce un nuovo interrogativo: da chi è frequentata quest’aula? Dalla perlustrazione dell’ambiente appare la risposta. Si tratta di un telefono, pronto a cantare la verità, fino a quel momento tenuta nascosta.

Dai tabulati della Telecom si scopre che qualcuno, alle 11.44 ha effettuato una telefonata, seguita da un’altra alle 11.48. Esattamente due minuti dopo la morte di Marta, Maria Chiara Lipari, dottoranda, si trova dentro la sala degli assistenti.

Secondo la testimonianza della Lipari, questa avrebbe chiamato il padre, Nicolò Lipari, professore ed ex parlamentare democristiano, per avvertirlo su dove fosse. Questa, messa sotto interrogatorio, svuota il sacco. Dentro l’aula con lei c’erano anche altre quattro persone: Francesco Liparota, 35 anni, usciere della facoltà, Salvatore Ferraro, 30 anni, dottore in Giurisprudenza e assistente del professor Gaetano Carcaterra e Giovanni Scattone, 29 anni, dottorando e assistente non retribuito del professor Bruno Romano presso la facoltà di Lettere e Filosofia. Infine la segretaria Gabriella Alletto, 45 anni, segretaria amministrativa.

Quest’ultima verrà interrogata tredici volte durante le indagini, diventando protagonista di un’inchiesta ministeriale per abuso d’ufficio e violenza privata a causa delle pressioni psicologiche a cui venne sottoposta. Secondo le sue prime dichiarazioni, non era presente al momento dello sparo nell’aula, perché impegnata a risolvere un guasto di un fax di un’aula circostante.

O la Lipari ricorda male o la Alletto mente. Gli investigatori si convincono che delle due la seconda ipotesi sia quella veritiera. Quando la interroga il procuratore Italo Ormanni, intima Gabriella di parlare.

Nei nastri resi pubblicati l’11 giugno, recuperati dai cronisti di Radio Radicale, la Alletto ripete, per quasi quattro ore:

Non sono mai entrata in quell’aula […] Io nun ce stavo là dentro, te lo giuro sulla testa dei miei figli… Non ci sono proprio entrata, ma come te lo devo dì? Fino allo sfinimento…

Eppure, due settimane dopo, la Alletto si presenta spontaneamente dalla polizia e ammette di trovarsi dentro l’aula 6.

Non solo, c’era qualcuno con lei. Il 9 maggio Salvatore Ferraro e Giovanni Scattone entrano nella sala degli assistenti di Filosofia del diritto. Poi lo sparo di una pistola.

Ferraro e Scattone: sono loro i colpevoli del delitto della Sapienza?

Salvatore Ferraro

Alla Digos la Alletto racconta che, entrata nell’aula sei, c’erano Ferraro e Scattone. Secondo la sua testimonianza, è Scattone ad aver fatto partire il colpo, provocando il panico di Ferraro che, alla vista del corpo di Marta, avrebbe imprecato con le mani tra i capelli.

I due, che tenevano anche seminari alla Sapienza, erano stati sentiti parlare di “delitto perfetto” da alcuni studenti, ma entrambi negheranno tutto ciò. Per gli investigatori, la morte di Marta sarebbe quindi frutto del tentativo di mettere in scena un omicidio di cui gli inquirenti non avrebbero trovato i colpevoli.

Giovanni Scattone

Per gli inquirenti le accuse della Alletto combaciano perfettamente con le loro teorie. Secondo le analisi balistiche, il killer è destrorso, così come Scattone. Ferraro è mancino, non può aver sparato.

I due vengono così arrestati, nonostante si professino innocenti. Ciò che di loro colpisce è la tranquillità e freddezza che trasmettono, come se si aspettassero questo epilogo. Né Ferraro né Scattone mostrano un briciolo di empatia o compassione verso la vittima o la sua famiglia.

L’ultimo dei due in particolare modificherà molte volte la sua versione dei fatti.

Come racconterà, Scattone quella mattina avrebbe incontrato il professor Lecaldano a Villa Mirafiori. A questo gli investigatori chiesero l’orario: tra le 11:00 e le 12:30. Secondo il proseguimento della sua versione dei fatti, alle 11:30 l’assistente sarebbe andato poi a Storia per prenotare un esame, dove un particolare attirò la sua attenzione: un foglio strappato affisso davanti alla porta. Agli inquirenti il professor Guy confermerà quanto detto.

Dopodiché Scattone andò a ritirare il certificato di convalida degli esami del corso di Lettere a cui era iscritto alle ore 11:50, cioè circa 8 minuti dopo lo sparo. Incontrato l’assistente Fiorini, solo dopo l’arrivo dell’ambulanza sarebbe andato verso l’aula 6, versione avvalorata da La Porta, uno studente lì di passaggio. Dell’accaduto ne verrà conoscenza solo quando ne vide parlare in televisione durante il pranzo.

Per quanto riguarda Ferraro, questo disse di essere stato come tutti i giorni a casa a studiare con la sorella Teresa. Lì alle 11:45 sarebbe venuta Marianna Marcucci, che confermò la visita. Quest’ultima rimase lì fino alle 12.30 e, quando andò via, telefonò Alessandra Vozzo, conversazione risultante dai tabulati. Quest’ultima confermò di avere chiamato più volte casa Ferraro e di aver parlato sia con Salvatore che con Teresa, commentando con i due la morte di Marta.

Rimangono però delle testimonianze contrastanti, persino sul loro abbigliamento: Ferraro per Giuliana Olzai – studentessa fuoricorso – era vestito di grigio-celeste mentre, per l’Alletto, con una giacca blu. Inoltre, sempre secondo quanto raccontato dalla studentessa, i due assistenti dopo lo sparo sarebbero usciti dall’università presi dal panico.

Per i giornalisti le parole della Olzai sono di fondamentale importanza perché le uniche che vanno contro gli alibi dati da La Porta e Marcucci.

Tra tutte le accuse, vi è un solo filo conduttore: la violenza psicologica al quale vengono sottoposti, tra tutti, anche Ferraro e Scattone. Rimangono per sempre impresse le seguenti parole della Alletto:

Non li vidi sparare, non c’ero… Mi stanno convincendo che hanno sparato da lì, mi stanno convincendo che ero lì dentro

Gabriella Alletto, secondo la testimonianza di Laura Cappelli e intercettazione ambientale

La chiusura del delitto della Sapienza e le altre incongruenze

Al processo viene presentata la ricostruzione dei fatti, grazie alle parole di Gabriella.

Allo scoppio del proiettile, provocato da Scattone, seguì un “tonfo“. Ferraro, incredulo, si mise le mani nei capelli, mentre l’altro con la mano sinistra spostava le doghe della tenda per ritrarre la pistola. L’arma venne nascosta dentro la borsa di Lipari. Poi uscirono dalla sala, bisbigliando qualcosa, forse un saluto, alla Lipari che era appena entrata. Ferraro ha preso la borsa e l’ha portata via.

Secondo le analisi nanotecnologiche effettuate, la ventiquattro ore presenta delle tracce, seppur minime, che possono risultare compatibili alla polvere da sparo.

Eppure, rimangono dei punti interrogativi che non posso essere ignorati nel nostro racconto. A causa di ciò, infatti, la difesa, costituita dagli avvocati per Scattone Francesco Petrelli, Manfredo Rossi, Andrea Falcetta e Alessandro Vannucci mentre per Ferraro Vincenzo Siniscalchi, Delfino Siracusano, Fabio Lattanzi e Domenico Cartolano, ipotizzano che i resoconti siano frutto di ricostruzione e della suggestione psicologica a cui venne sottoposta la Alletto.

I colleghi della donna riferiscono addirittura che gli inquirenti la minacciarono di toglierle la patria potestà dei figli, oltre che a ventiquattro anni di prigione.

Mi hanno messa in mezzo… io in quella stanza non c’ero, però non mi conviene dire che non c’ero […] loro si immaginavano la scena, ma avevano bisogno di un testimone attendibile, di una persona affidabile

Il primo problema riguarda l’arma: questa dovrebbe essere una pistola a canna lunga con un silenziatore di almeno 10 cm, ma Gabriella omette nella sua versione quest’ultimo dettaglio. Addirittura, quando le chiesero di disegnarla, ne raffigurò una a canna corta.

Come avrebbe potuto Scattone sparare da quella finestra senza sporgersi né tantomeno far uscire fuori il braccio, come secondo le ricostruzioni? L’infisso era infatti ostacolato da dei condizionatori. Il colpo, effettuato “per caso”, non poteva andare a segno, a meno che il killer non si fosse proteso verso fuori.

Addirittura per un cecchino, nelle condizioni descritte dalla Alletto, le possibilità di colpire un bersaglio in movimento sarebbero state pari al 30%. Inoltre, nessuno ritrovò mai il bossolo.

Come mai Gabriella racconta di non aver sentito urla dopo lo sparo se, a detta di molti testimoni, fu Iolanda Ricci la prima a gridare in cerca di aiuto?

Le stesse tracce sulla borsa di Ferraro lasciano dei dubbi. Se la pistola avesse effettivamente appena sparato un colpo, questa dovrebbe essere piena di polvere da sparo. Invece, vi sono solo pochi segni.

Secondo il neurofisiologo Piergiorgio Strata, le affermazioni della Alletto sono frutto di “una saga di ricordi emersi lentamente e con fatica dal nulla, sono stati ottenuti con enorme sforzo ricostruttivo, con notevoli condizionamenti esterni e spesso sotto forma di lampi improvvisi. Pertanto, essi vanno considerati altamente inaffidabili”.

Così, come in un film, la segretaria amministrativa Gabriella Alletto si convince di essere testimone di qualcosa che, probabilmente, non ha mai visto. La corte condanna Giovanni Scattone a 7 anni di reclusione per omicidio colposo, con l’aggravante della colpa cosciente e per possesso illegale di arma da fuoco, mentre Salvatore Ferraro a 4 anni per favoreggiamento personale. Sono entrambi colpevoli della morte di Marta.

Il caso del delitto della Sapienza viene chiuso, forse.

Tra le tante, l’ipotesi terroristica rimase comunque valida, anche dopo anni. Infatti, quel 9 maggio è presente alla Sapienza anche Paolo Broccatelli, dipendente della ditta di pulizie Team Service prima e la Smeraldo poi, nonché membro delle Nuove Brigate Rosse. Si pensa che a qualcuno sia partito un colpo accidentale mentre provava la mira, e per questo non avrebbero rivendicato il colpo.

Qualcuno suppose che, ad aver ucciso Marta, sia stato un cecchino sociopatico. Una personalità disturbata che voleva uccidere qualcuno con semplice scopo dimostrativo.

Rimane un ultimo grande dubbio: l’inclinazione del capo di Marta. Infatti, l’ipotesi che lo sparo sia partito dall’aula 6 della Sapienza è valida solamente se la Russo si trovava in quel momento con la testa inclinata e voltata verso destra. Ma se questo fosse stato perfettamente eretto? Allora il colpo sarebbe scoppiato dal bagno dei disabili, dalla sala di statistica, in fase di ristrutturazione o dalla sala computer.

Il proiettile aveva inoltre delle tracce di fibre di vetro, compatibili con il controsoffitto del bagno dei disabili, dove vengono ritrovate particelle di polvere da sparo.

Vi lasciamo quindi con una domanda.

Chi si trovava, il 9 maggio 1997, nel bagno dei disabili della Sapienza di Roma?

Scritto da Gaia Vetrano


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