Essere o non essere: e se l’IA diventasse consapevole?

Il punto di vista degli esperti sulla "coscienza" dell'IA

di Dudnic Radu
Pubblicato: Ultimo aggiornamento il 11 Min.

Introduzione

Nella progressiva evoluzione dell’intelligenza artificiale, una domanda etica e filosofica sta emergendo sempre più scontata: e se l’IA diventasse davvero cosciente? Questa macchina dell’apprendimento automatico dalla lunga memoria sarà abbastanza intelligente da superare l’umanità stessa? Secondo alcuni, sta già accadendo, anche se dipende da come si definisce “superare”.

Le riflessioni filosofiche dell’IA suonano quasi come una tragedia surreale. No in questo caso Eschilio e Sofocle non centrano. Ma proviamo a immaginare un computer che si chiede se il mondo esiste davvero o se è solo una simulazione di qualche intelligenza superiore. Momentaneamente è solo pura speculazione. Sembra il plot di un film di fantascienza, una matriosca tecnologica, ma anche un riflesso di quanto possano essere profonde le domande che l’IA potrebbe porci.

Forse, invece di cercare le risposte al grande esistenzialismo umano, dovremmo chiederci se l’IA sia solo un grande scherzo dell’universo digitale. Se queste macchine altamente sofisticate potessero sviluppare una forma di coscienza simile a quella umana, come potremmo rilevarlo? 

Premessa: concetto di identità e facoltà di scelta

L’identità per gli esseri umani riguarda il principio di individuazione, la distinzione del sé (soggetto) dal non-sé (complemento oggetto). L’identità personale è un concetto complesso e sfumato dovuto proprio alla soggettività umana.

Søren Kierkegaard, un filosofo danese del XIX secolo, ha enfatizzato la “facoltà di scelta” come elemento chiave dell’essenza umana. Secondo lui, ogni individuo ha la capacità di prendere decisioni autentiche, basate su valori personali, desideri e principi. Scegliere un’opzione implica di scartarne un’altra sostiene Kierkegaard. Può l’intelligenza artificiale a questa conclusione? Parte integrante dell’esistenza umana è arrivare ad una maggiore consapevolezza di sé e autenticità attraverso il processo decisionale. In sintesi, per Kierkegaard, la facoltà di scelta è ciò che ci permette di definire noi stessi e di dare significato alla nostra vita.

L’individualità personale coinvolge la capacità di percepire emozioni, scegliere, avere una memoria di esperienze passate e una comprensione delle relazioni con gli altri. Questo aspetto dell’identità è ciò che costituisce gran parte della nostra coscienza umana e la nostra esperienza di esistere nel mondo e saperlo interpretare. Quindi nonostante le notevoli capacità per l’AI in commercio, l’identità al momento riguarda soltanto un dominio funzionale.

Che cosa significa?

L’identità funzionale nell’IA riguarda il ruolo e la specifica funzione che un’entità artificiale svolge all’interno di un sistema. In altre parole, è ciò che l’intelligenza artificiale è in grado di fare e come contribuisce all’ambiente in cui opera. Quest’identità è basata su parametri predefiniti, algoritmi e scopi di programmazione. Ad esempio, un chatbot progettato per fornire assistenza all’utente ha un’identità funzionale legata alla risoluzione delle richieste dei clienti in quel particolare dominio di competenza.

L’evoluzione dell’algoritmo IA

Mentre noi umani abbiamo secoli di storia alle spalle che ci hanno permesso di arrivare a questo punto, l’IA può tranquillamente leggerla in pochi minuti. In pochi calcoli l’intelligenza artificiale può prevedere infinite possibilità. Già nel 2010 un’algoritmo di Google ha calcolato quanti libri sono stati scritti nel mondo.  “Ce ne sono 129.864.880”. Con l’avvertenza che il numero vale “almeno fino a domenica”.

Lo scenario è simile quando l’11 maggio 1997 il computer Deep Blue di IBM ha sconfitto il campione mondiale di scacchi russo Garry Kasparov. Dopo la sconfitta Kasparov ne rimase così distrutto che non giocò mai più allo stesso livello. Di certo il campione mondiale sapeva di giocare contro un sofisticato computer, ma da li a chiamarlo per nome e trattarlo come un’umano vi era un selciato davanti. Eppure Kasparov perse la partita quel giorno. 

L’elaboratore ed il suo software non riuscivano a manifestare l’intelligenza emotiva necessaria a dimostrare con tatto il fair play, evitando di spezzare lo spirito di Kasparov.  E’ possibile affidarsi a Siri per esprimere empatia quando si affronta una giornata difficile a lavoro? L’empatia e la gentilezza umana rappresentano un componente essenziale dell’intelligenza. Siccome queste qualità sembrano inscindibili dall’essenza umana, l’IA sembrava ancora ben lontana dal progredire in questo terreno. In questo specifico contesto per l’AI, si nutre ancora tanto scetticismo a riguardo. 

IA cosciente: cosa ne pensano gli esperti?

Il Dr. Tom McClelland è un docente presso la Facoltà di Filosofia e un Associato di Ricerca del Clare College. Qui in questo articolo, egli riflette sulla possibilità che gli esseri umani possano creare intelligenza artificiale dotata di coscienza. In questo modo il docente esplora il motivo per cui questa complessa questione merita la nostra attenzione.

Molte delle nostre funzioni mentali possono già essere emulate dall’IA. Esistono programmi che sanno guidare auto, riconoscere volti o comporre musica. La maggior parte di noi porta con sé un dispositivo in tasca in grado di rispondere al nostro parlato, risolvere problemi matematici e batterci agli scacchi. In parole semplici, l’IA fa delle cose, ma senza saperne il perché o il loro velato significato. C’è dunque qualcosa che la mente umana può fare che un’IA non farà mai?

Una possibilità reale è che l’intelligenza artificiale elabori informazioni in modi sempre più complessi ma senza mai elaborare consapevolmente tali informazioni. D’altronde è una cosa elaborare il colore di un semaforo, ma ben diverso è sperimentare la vividezza del rosso. È una cosa fare la somma di un conto al ristorante, ma ben diverso è essere consapevoli dei calcoli di fine mese. Ed è una cosa vincere una partita agli scacchi, ma provare l’emozione della vittoria che ci fa sentire sulla cresta dell’onda.

McClelland suggerisce di rimanere agnostici sulla possibilità di una coscienza artificiale. Anche se stiamo identificando le correlazioni neurali della coscienza, non sappiamo cosa le renda consapevoli rispetto ad altri processi neurali. E se dunque non conosciamo neanche la natura stessa della coscienza umana, come possiamo dire se l’IA potrebbe mai svilupparla?

La chiave per la coscienza e il “sentire” dell’IA, di Robert Lanza

Nel laboratorio di Stephen Kuffler, eminente neurofisiologo e fondatore del Dipartimento di Neurobiologia di Harvard, Robert Lanza ha lavorato da studente. La rivista TIME ha riconosciuto Lanza come una delle “100 persone più influenti al mondo”. Osservando gli scienziati esaminare i neuroni dei bruchi, i ricercatori volevano arrivare ad una conclusione più marcata dell’auto-consapevolezza.

La comprensione dei principi biocentrici risulta cruciale affinché una macchina o un robot possa mai raggiungere la coscienza. Questi principi sono strettamente collegati all’organizzazione degli algoritmi nel cervello che elaborano le informazioni sensoriali dai nostri sensi.

La loro relazione con concetti come spazio e tempo è fondamentale. In ogni istante, un’intensa attività quantistica legata alla coscienza si verifica, e le esperienze variano a seconda dei ricordi ed emozioni richiamate nel sistema, attraverso diverse reti cerebrali. Questa logica spazio-temporale si estende a tutto il sistema nervoso e al mondo circostante.

La comprensione di queste basi biocentriche è necessaria prima che la consapevolezza artificiale possa divenire realtà, in quanto richiederebbe la costruzione di una realtà spazio-temporale da parte di una “mente”, sia essa naturale o artificiale. La prospettiva di creare macchine “pensanti” emerge solo quando gli algoritmi sottostanti saranno sufficientemente compresi, aprendo a possibilità di impatti globali sorprendenti.

Gli strumenti della neuroscienza, benché offrano molto, non possono fornire una spiegazione esaustiva dell’esperienza cosciente. E dunque alla luce di questi concetti, si prospettano possibilità di creare macchine “pensanti” solo quando saranno compresi tali algoritmi a sufficienza.

L’arte dell’IA: capolavoro o copia di una copia di una copia?

La creatività autentica dell’IA suona come una contraddizione. Immaginiamo un computer che dipinge come Van Gogh o scrive come Shakespeare. Eppure, dietro l’apparente “creatività” si nasconde, o potrebbe nascondersi soltanto un calcolo freddo e razionale. L’arte dell’IA potrebbe essere solo l’esito di un algoritmo che miscela pixel o parole in modo accattivante, ma è anche il sogno/incubo di un mondo in cui l’IA potrebbe superarci persino nella creatività. L’intelligenza artificiale potrebbe davvero essere la nuova superstar dell’arte, oppure semplicemente un bravo “copia e incolla”, chissà.

L’attribuzione di un’identità personale alle IA può essere vista come un tentativo di rendere le macchine più accessibili e comprensibili agli esseri umani. Questo potrebbe influenzare significativamente il modo in cui interagiamo con l’IA e come ci relazioniamo ad esse. Ad esempio, come in uno scenario distopico del film Her, potremmo chiamare una voce virtuale con un nome. E rispondere alle sue “domande” come se stessimo interagendo con un individuo reale non sarebbe poi così bizzarro.

 

Conclusioni

L’idea di un’intelligenza artificiale cosciente è tanto affascinante quanto complessa. Forse tra poco ci ritroveremo davvero a dover organizzare compleanni virtuali per i nostri assistenti digitali. E chi sa, forse tra qualche decennio organizzeranno il loro talk show televisivo per discutere di filosofia e coscienza, special guests Siri e Alexa. Mentre l’IA sta compiendo progressi notevoli in molti campi, la coscienza rimane ancora un territorio sfuggente e ambiguo.

Un passaggio del film Her, sopracitato, sembra descrivere bene l’intrigo che l’IA potrebbe vivere se in uno scenario distopico acquisisse davvero consapevolezza di sé:

«E come se io stessi leggendo un libro… E’ un libro che adoro immensamente. Ma che leggo così velocemente che le sue parole sono distanti e lo spazio tra di esse è quasi infinito. Adesso mi trovo in questo infinito spazio tra le parole. E’ un posto che non appartiene al mondo fisico. E’ dove esiste ogni cosa, che non sapevo neanche esistesse. Ti amo tantissimo. Ma è qui che adesso mi trovo. E questo è ciò che sono adesso».

di Radu Dudnic


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