Pinkwashing: il figlio di Marketing e del Femminismo

di Giorgia Lelii
4 Min.

Con il termine pinkwashing (dall’inglese pink, rosa, e whitewashing, celare, nascondere, imbiancare) indichiamo tutte le attività che promuovono una certa tematica o una campagna. Il punto è che non la sostengono davvero, ma fingono di farlo. Infatti, l’uso di questa parola deriva da un fatto a dir poco sconvolgente. Un’associazione per la lotta contro il cancro al seno, al fine di identificare e smascherare la aziende che incassavano sulla malattia, fingevano di dar sostegno alle malate per trarre profitto.

Il termine ha origine nei primi anni Duemila, dall’associazione Breast Cancer Association. La sua principale attivista, Barbara Brenner, morta nel 2013, ideò il progetto Think Before You Pink. Lo scopo dell’idea era rispondere al numero di prodotti contrassegnati con il nastro rosa, venduti appunto con la promessa di raccogliere fondi e sensibilizzare sul tumore al seno.

Ad esempio, era scandaloso il fatto che dei brand americani di cosmetici regalassero loro prodotti alle malate oncologiche per dimostrare vicinanza. Qui niente, ma se si scava più a fondo, si scopre che quei prodotti regalati contenevano spesso sostanze legate all’insorgenza del cancro. Non mancano all’appello le aziende di prodotti per l’igiene femminile, le prime in silenzio sulle problematiche legate al ciclo mestruale. Per ridefinire la propria identità come brand, si affrettano all’empowerment pubblicitario delle adolescenti e rappresentando il sangue con il suo effettivo colore

Con l’ampliamento dei problemi e delle tematiche, il pinkwashing non è l’unico genere di washing conosciuto e criticato. Esiste il greenwashing (riferito all’ambiente), ed esiste anche il rainbowwashing (per la comunità LGBT).

A questo proposito, ricorre un esempio piuttosto recente. Nel 2018, l’azienda irlandese Primark lanciò la collezione “Pride“, il cui 20% dei ricavi sarebbe stato donato all’ente di beneficenza Stonewall, la più grande organizzazione europea per i diritti LGBT. Tuttavia, il brand non partecipò al Pride di Londra; in aggiunta, gli attivisti fecero notare che tutta la produzione Primark è dislocata in Paesi come Turchia e Myanmar, nei quali i diritti LGBTQI+ non sono tutelati.

Che ne pensate? Si tratta solo di un’esagerazione, o è qualcosa di vero e inconcepibile?

Scritto da Giorgia Lelii


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