L’ultimo popolo che vive nelle paludi dell’Iraq sta scomparendo

Dove non è riuscito Saddam Hussein, sta riuscendo il cambiamento climatico: il popolo Ma’dān non potrà più vivere nelle loro case.

di Carola Speranza
Pubblicato: Ultimo aggiornamento il 8 Min.

Esiste un posto, nel mondo, che stiamo perdendo. Si trova nel sud dell’Iraq. L’area che sorge vicino alla città di Chibayish è attraversata dal vastissimo fiume Eufrate. All’interno di quest’ultimo, proprio all’altezza della città sopracitata, un’intera area paludosa ha permesso per centinaia di migliaia di anni, al popolo Ma’dān, di vivere in delle palafitte, rifornendosi di pesca e dell’allevamento di bufali.

Non esistono fonti ufficiali, ma come riportato da un articolo del reporter Lorenzo Cremonesi, per il Corriere della Sera, fino a quarant’anni fa, l’insediamento raggiungeva circa 40 mila chilometri quadrati, ospitando fino a mezzo milione di persone. Riuscivano a mantenersi, tramite la caccia e con la vendita di latte, yogurt e formaggi, derivanti dai loro allevamenti di bufali.

La situazione delle paludi oggi

Ad oggi, l’area si è ristretta in maniera esorbitante: basti pensare che sono meno di dieci le famiglie che al momento vivono nella stessa zona. Se si è calcolato che nel 2003, con l’invasione americana dell’Iraq, erano meno di duemila le persone che erano riuscite a rimanere tra i bacini di quello che rimaneva delle paludi, ad oggi non ne restano che una manciata di unità.

Attraversando il fiume, con le barche di legno e di plastica costruite dai locali, e superando un ponte, si arriva alla zona paludosa. Si caratterizza per sparsi rialzi di terra, principalmente argillosa, che si sopraelevano rispetto al livello, ormai molto basso, dell’acqua. Qui vengono costruite capanne di paglia e canne, che si sviluppano in più stanze, in cui vivono intere famiglie. Mentre ci avviciniamo all’abitazione di una famiglia, la nostra guida che conduce la barca ci mostra tutte le altre capanne lasciate abbandonate.

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Una delle tante abitazioni abbandonate dagli arabi della palude.

Il sito è infatti completamente compromesso. Di mese in mese gran parte della popolazione torna a vivere sulla terraferma. La concatenazione di cause, che parte dalla crisi climatica, con l’assenza di piogge e il livello troppo basso dell’acqua, è da mettere in relazione con la politica idrica della Turchia e ad una vera a propria carneficina a cui gli arabi delle paludi sono riusciti a sopravvivere.

I primi problemi per gli abitanti sono arrivati, infatti, negli anni ’80, anche se sono i primi anni ’90 che sono scenario di una vera e propria strage, per gli arabi delle paludi ed il mandante era solo uno: Saddam Hussein.

Prima causa: le “bonifiche” delle paludi di Saddam Hussein

I primi problemi per le centinaia di migliaia di persone che formavano il popolo Ma’dān arrivano con la guerra Iraq-Iran scoppiata nel 1980, e durata per otto anni. Per contrastare le offensive iraniane, che volevano sfruttare le paludi per arrivare ai pozzi petroliferi, Saddam Hussein avvia una vasta campagna di bonifiche.

Durante la prima guerra del golfo, gli USA hanno cercato di fermare l’invasore Saddam Hussein, che nel 1990 era entrato illegalmente nel Kuwait, anche tramite un sostegno della parte degli oppositori, all’interno dell’Iraq. Con Saddam Hussein, il potere era incentrato in mano ai sunniti, anche se la maggioranza della popolazione rimaneva sciita. Sia i curdi a nord e sia milizie sciite sparse per il territorio, avevano cercato di destabilizzare il potere centrale, con la protezione e il supporto degli Stati Uniti. Il 1991 è l’anno delle rivolte, da parte di tutte le opposizioni, al potere di Saddam, il quale però, una volta finita la prima guerra del golfo, nel 1991, non viene spodestato.

Gli oppositori sciiti, così come i curdi, si sono ritrovati totalmente scoperti da ogni tipo di protezione. Inizia così una delle pagine più sanguinose per la storia del popolo iracheno e curdo: Saddam Hussein, con il suo partito Ba’th, inizia una delle repressioni più violente contro tutti i ribelli che avevano partecipato alle rivolte. Per quanto riguarda il popolo Ma’dān, a maggioranza sciita, si rivendica facendo deviare il corso del fiume Eufrate, per lasciare l’area degli arabi delle paludi totalmente a secco. In pochi mesi intere comunità sono state costrette a emigrare con la forza, anche se non sono mancate numerose vittime.

Seconda causa: le dighe in Turchia

Il fiume Eufrate, così come il Tigri, nasce in Turchia.

Un secondo problema, per gli arabi delle paludi, è dato dalla politica idrica turca. Dallo scorso secolo, tramite delle dighe, la Turchia trattiene gran parte del flusso d’acqua dei due fiumi. Tra i vari bacini idrici turchi, infatti, i bacini dell’Eufrate e del Tigri sono quelli con il maggior potenziale di energia idroelettrica. Per questo motivo, a partire dagli anni ’60, la Turchia ha deciso di sviluppare il Progetto Anatolia Sud-Orientale e ha iniziato a costruirci dighe. Il progetto, denominato GAP,  Southeastern Anatolia Project, nasce negli anni ’60 come progetto di produzione di energia idroelettrica e di sviluppo dell’irrigazione. Qualcosa però cambia nel corso del tempo. Dagli anni ’80, il progetto diventa strettamente legato alla prosperità della regione dell’Anatolia sud-orientale, che potrebbe produrre quantità di energia idroelettrica inimmaginabile fino ad allora.

Twenty-five percent of the country’s water potential is located in the GAP region. Twenty-two dams and nineteen hydroelectric power plants were planned to be constructed within GAP. With the completion of the GAP, an area of 1.06 million hectares is expected to be irrigated and annual production of 27 billion kWh hydroelectric power is targeted. This would meet a large share of the energy demand in the country.”

Come riporta ISPI, con la costruzione di ventidue dighe e diciannove centrali idroelettriche, la Turchia poteva arrivare ad irrigare un’area di 1,06 milioni di ettari e di produrre annualmente 27 miliardi di kWh di energia idroelettrica.

Le dighe vengono costruite nonostante le contestazioni da parte della Siria e dell’Iraq. Nonostante alcuni protocolli e memorandum firmati nel corso del tempo, nulla è effettivamente cambiato.

Terza causa: una crisi climatica inarrestabile

L’altro grande problema è dettato dalla crisi climatica. Le temperature così alte e l’assenza di pioggia peggiorano ulteriormente una situazione già compromessa. Basti pensare che, al momento della nostra visita, nell’ottobre del 2023, ci viene detto che erano passati quasi sette mesi dalle ultime piogge.

Anche questo problema, però, è conosciuto da diversi anni e nessuno si è mai mosso con una politica preventiva. Secondo un report di Nadhir Al-Ansari, Hydro-Politics of the Tigris and Euphrates Basins, i danni causati dal climate change sono già allarmanti nel 2016 :

“Middle East and North Africa (MENA) region is among the most vulnerable in the world to the potential impacts of climate change. The most significant changes in MENA region which already suffers from aridity, recurrent drought and water scarcity are the increased average temperatures, less precipitation and more erratic, and sea level rise (SLR).”

A questo, si sommano i problemi “interni”: dall‘aumento della salinità delle acque fino al suo pericolo da un punto di vista sanitario.

Un’altra guerra è possibile?

Nelle conclusioni del report, si dimostra come non si sia mai trovata una soluzione per una condivisione giusta e proporzionale dell’acqua dei Tigri ed Eufrate, tra Turchia, Iraq e Siria. Non solo, si sottolinea come la questione idrica sia spesso motivo di tensioni sempre più importanti, non escludendo la possibilità di una prossima guerra. Uno scenario piuttosto plausibile, visto l’aumento, nel corso degli anni, delle cosiddette Water Wars. E mentre si attende la stagione delle piogge, una famiglia ci ha accolto nella sua abitazione, con grandi tappeti colorati per terra e il tè caldo pronto, come di tradizione.

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L’interno di un’abitazione.

I tre bambini della famiglia vanno a scuola tutti i giorni, sulla terraferma, per poi tornare in barca, una volta finite le lezioni. Loro dicono che va bene così, che cercheranno di resistere fino a quando potranno. Ignari di un prossimo conflitto e della prossima pioggia. Ignari, anche, di quando finiranno di costruire, circa un kilometro più in là, il santuario delle vittime degli arabi della palude, caduti per mano di Saddam Hussein.

Che sia per colpo dell’uomo o della natura, questo è un popolo che per ora, anche se in poche unità, resiste. Orgoglioso, il padre di famiglia ci mostra l’unica mucca rimasta in vita e i bufali che sguazzano in un’acqua sempre più bassa e salata. Dice che se Dio vorrà andrà tutto bene.

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