L’impiccagione (1968) di Nagisa Ōshima | recensione

di Emanuele Fornito
5 Min.

Annoverato tra i maestri del cinema giapponese, Ōshima rientra tra i fondatori della cosiddetta Nouvelle Vague giapponese, la quale, con un tono di critica al potere e alle generazioni precedenti, ha dato vita a numerosi capolavori. Già politicamente impegnata, l’arte di Ōshima verte, ne L’impiccagione, su una critica finissima ed intelligente a quelle che sono le contraddizioni del potere.

l'impiccagione

Una storia atipica

La narrazione è incentrata su R, un immigrato coreano accusato di aver stuprato ed ucciso due ragazze. L’uomo è condannato all’impiccagione ma, nell’esecuzione, egli perde i sensi, senza però morire. Ne scaturisce una situazione dall’inflessione assurda, in cui i vari funzionari, dottori e guardie carcerarie tentano di comprendere come comportarsi nei confronti di un’esecuzione sì non andata a buon fine ma compiuta, e un condannato privo di sensi. A peggiorare la situazione è lo stesso R il quale, risvegliatosi, ha perso completamente la memoria. Secondo la legislazione giapponese, infatti, non è possibile condannare un accusato inconsapevole dei propri crimini, dunque gli agenti cercano in tutti i modi di fargli riacquisire i ricordi del delitto commesso.

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Un’unione tra cinema e teatro, realtà ed assurdo

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Un finale significativo

Ōshima caratterizza il film di un finale particolarmente significativo. R, dopo aver compreso di non poter essere più parte della società, decide di accettare la seconda esecuzione, mettendo però in guardia tutti i presenti che, così, si macchieranno di omicidio, in quanto uccidono un uomo inconsapevole delle proprie colpe. All’atto di impiccagione, però, il corpo di R scompare. Al di là delle possibili interpretazioni su un finale decisamente “enigmatico”, ciò che colpisce di più è un dubbio che Ōshima instilla nello spettatore: ora che lo Stato ha commesso l’omicidio di R, chi punirà lo Stato?

Questa riflessione rimanda in realtà a varie interpretazioni, precedenti e successive, della tematica: basti pensare al capolavoro di Krzysztof Kieślowski Breve film sull’uccidere (1988), in cui il maestro polacco, ragionando sull’efferatezza delle leggi sovietiche, arriva alla stessa conclusione di Ōshima: la pena di morte non è altro che violenza in risposta a violenza, che pone l’autorità giudiziaria sullo stesso livello dell’assassino condannato.

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(1) Rondolino G., Tomasi D. Manuale di storia del cinema Seconda edizione. Novara: UTET Università; 2014. ISBN
9788860084064

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