I disturbi alimentari, raccontati da Aurora Caporossi di Animenta

di Mirko Aufiero
11 Min.

Oggi si celebra la Giornata nazionale del Fiocchetto Lilla, dedicata ai disturbi del comportamento alimentare (DCA). Nonostante negli ultimi anni il tema sia sempre più discusso, esistono ancora narrazioni distorte, incomplete o superficiali del tema.

Spesso relegati a «malattie adolescenziali» o «capricci», i disturbi alimentari sono patologie che colpiscono in maniera «democratica» uomini, donne, giovani e meno giovani. Tutti possono esserne colpiti, motivo per cui è sempre necessario aumentare la consapevolezza sul tema.

Ne abbiamo parlato con Aurora Caporossi, fondatrice di Animenta, organizzazione non-profit che dal 2021 si occupa di sensibilizzare sul tema, partendo dalle storie di chi ha vissuto i DCA sulla propria pelle.

Che cos’è Animenta?

La nostra conversazione è partita dal racconto della storia dell’associazione e del lavoro che oggi svolge. Questo percorso può essere sintetizzato in una frase di Aurora: «Animenta è un luogo in cui ogni storia è accolta e ogni giudizio è bandito».

«Animenta nasce a gennaio del 2021 dalla mia esperienza personale e ha come obiettivo non solo riuscire a fornire un aiuto concreto a chi soffre di disturbi alimentari, ma anche quello di raccontare con parole e immagini nuove questa malattia.

Noi nasciamo in particolare dalle storie di chi ha vissuto un disturbo alimentare, ma anche di chi lo vive accanto, ossia parenti, familiari e amici. Questo perché i disturbi alimentari sono una malattia che coinvolge non solo chi ne soffre, ma anche tutte le relazioni che quella persona ha»

Proprio le storie permettono all’associazione di «far sì che le persone si sentano meno sole e di avere una rappresentazione più ampia del tema».

In particolare, il lavoro di Animenta si sviluppa su tre macro temi:

«Prevenzione a scuola e in università con docenti e studenti, supporto a chi soffre direttamente di queste malattie e ai suoi cari, e riabilitazione

In quest’ultima fase l’obiettivo è aiutare a riscoprirsi oltre la malattia attraverso le proprie passioni e interessi»

Come avviene il percorso di guarigione?

I disturbi alimentari sono malattie “egosintoniche“, ossia che sono strettamente legate al nostro Io. Per questo motivo è molto difficile acquisire la «consapevolezza di avere un disturbo alimentare e chiedere aiuto».

«Soprattutto nella fase iniziale della malattia il disturbo si presenta come un’apparente soluzione. Quindi il primo passo per chiedere aiuto è riconoscere di avere un problema, di avere una malattia.

Questo spesso non accade perché i disturbi alimentari sono malattie egosintoniche, ossia che vanno a braccetto con il nostro Io. L’obiettivo è quello di renderle distoniche, ossia far sì che il paziente capisca che non è una soluzione, anzi, tutt’altro. Ciò è fondamentale per far sì che la persona riesca ad accedere a percorsi terapeutici»

Dopo aver acquisito questa consapevolezza, è necessario rivolgersi alle persone giuste per iniziare il percorso di guarigione. Nello specifico, si deve consultare il proprio pediatra o medico di base, oppure i centri per i disturbi alimentari.

Quest’ultimi, purtroppo, non sono presenti in tutta Italia. Molte persone si rivolgono allora direttamente ad Animenta per «avere un supporto e capire come muoversi sul territorio».

Esistono disturbi alimentari meno conosciuti. Puoi raccontarceli?

«Ci sono dei disturbi alimentari meno noti, ma non significa che siano meno diffusi. Tra questi c’è sicuramente l’ARFID, un disturbo evitante-restrittivo nell’assunzione di cibo, che caratterizza spesso i bambini più piccoli.

Abbiamo poi l’ortolessia, che è l’ossessione per il cibo sano. È quindi un’ossessione per la qualità del cibo. L’ortolessia non rientra nel manuale diagnostico, ma è una sottocategoria del disturbo ossessivo compulsivo.

C’è poi la vigoressia (o bigoressia) nota anche come “complesso di Adone”. La vigoressia caratterizza in particolare gli uomini e consiste nel vedere il proprio corpo come mai abbastanza muscoloso. C’è quindi un abuso dei prodotti che abitano il mondo della palestra»

A questi se ne aggiungo tanti altri, tra cui la pica, che porta a mangiare oggetti inorganici, e la night eating sindrome. Quest’ultima è caratterizzata da un mangiare compulsivo durante gli orari notturni.

«La cosa importante è che tutti i disturbi alimentari sono sempre l’espressione di un dolore, di un disagio più profondo. Per questo motivo l’obiettivo del percorso di recovery è quello di riuscire a tradurre il significato del sintomo, ossia di questo rapporto con il corpo o con il cibo»

A proposito di disturbi legati agli uomini, qual è l’incidenza dei DCA sulla popolazione maschile?

«Dagli ultimi dati che abbiamo dal Ministero della Salute e dall’Istituto Superiore di Sanità il rapporto tra donne e uomini è di 80/20»

I dati che noi abbiamo sono però sottostimati, perché tante persone non riescono ad arrivare alle cure ed essere quindi tracciate. La cosa importante è che non esistono disturbi alimentari maschili o femminili. Sono malattie molto democratiche, mentre gli stereotipi che abbiamo creato non lo sono per niente»

Quali sono questi stereotipi?

«Molte persone pensano ancora che i disturbi alimentari siano capricci e li associano con la forza di volontà. In realtà i disturbi alimentari con questi c’entrano ben poco.

È molto difficile farlo capire. Nessuno sceglierebbe volontariamente di ammalarsi di un disturbo alimentare. Un altro stereotipo è che siano malattie femminili, ma come abbiamo visto non lo sono.

C’è poi chi le racconta come malattie adolescenziali. Ciò in parte è vero, perché i dati ci dicono che i disturbi alimentari sono malattie che riguardano moltissimo l’età dell’adolescenza.

Questo perché è un’età nella quale noi entriamo in contatto con i nostri pari e ci confrontiamo con gli altri. Dall’altra parte però c’è un sottobosco di persone adulte che ne soffre e che non ha accesso alla diagnosi»

Inoltre, è da sottolineare che «i disturbi alimentari possono abitare qualunque tipo di corpo, perché non riguardano né la forma né il peso».

Proprio riguardo alla forma e al peso, esistono falsi miti che collegano DCA e body positivity?

«Il concetto di body positivity è lasciare che le persone decidano liberamente. Amarci e accettarsi ogni giorno è difficile. La cosa importante è coltivare il rispetto per il nostro corpo e per quello degli altri.

Si deve capire che quando il corpo diventa un’ossessione c’è un problema»

La narrazione dei DCA negli ultimi anni sta cambiando…

«Oggi c’è una maggior consapevolezza sul fatto che la narrazione sui disturbi alimentari vada cambiata. Il problema è che quando parliamo di DCA si rischia di “romanticizzare” la malattia. 

Questo perché a volte le dinamiche stesse della malattia non corrispondono alle necessità del mezzo televisivo o cinematografico. C’è un importante movimento che parte dai social media, che però ha l’esigenza di arrivare su schermi più grandi per raggiungere anche le generazioni più anziane»

E che ruolo ha la politica nella lotta ai disturbi alimentari?

«Il confronto politico è fondamentale, i DCA sono un tema sociale e non partitico. L’unico colore è il lilla. Il sostegno della politica è più che altro un sostegno alle necessità delle persone.

Questo tema non riguarda più una minoranza, ma soprattutto le giovani generazioni. I casi di DCA tra i giovani sono sempre più alti, ed è compito della politica prendersi cura, attraverso azioni specifiche, della propria popolazione»

A gennaio aveva creato polemiche il non rinnovamento del fondo per i disturbi alimentari (su cui il governo ha poi fatto marcia indietro)

«È importante ascoltare ciò che chiedono le persone e le associazioni. Abbiamo bisogno di un intervento strutturale, che non cambi in base a come cambia il governo. Ciò da continuità, e fa capire alle persone che sono viste e che ci si prende cura di loro. Significa riconoscere una malattia che fa oltre 4mila morti l’anno»

Il 15 marzo terrete un evento alla Camera. Qual è il vostro obiettivo?

Vogliamo che i disturbi alimentari siano riconosciuti come malattia a sé stante all’interno dei LEA (livelli essenziali di assistenza n.d.r.) e che abbiano un budget autonomo. Questo per far sì che tutte le Regioni forniscano i livelli minimi di assistenza e che ci siano ambulatori e strutture dedicate per questa malattia.


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