”Genocidio”, quanto ci confonde?

di Emanuele Lo Giudice
6 Min.

Il termine « genocidio » viene spesso utilizzato per indicare eventi storici o attuali ma, nel suo utilizzo, talvolta rimaniamo confusi riguardo la sua specificità.

Genocidio

I recenti eventi internazionali hanno portato le istituzioni a parlare nuovamente di « genocidio », specificatamente nei riguardi della questione palestinese. Sebbene questo termine sia utilizzato da decenni riguardo tale circostanza, la sua applicazione non poche volte genera confusione. La parola « genocidio » è nata negli anni della Seconda guerra mondiale, quando l’avvocato polacco Lemkin coniò il termine per descrivere le barbarie naziste. Successivamente, dal 1948, il « genocidio » è diventato crimine internazionale in base al diritto internazionale. Fu nella Convenzione sulla prevenzione e repressione del genocidio di quell’anno che il genocidio ottiene un quadro giuridico che ne delinea non solo la definizione – di ristretta natura – ma anche la responsabilità di chi perpetra tale crimine. Ad oggi, nonostante negli anni il termine sia stato ampliato dai Tribunali penali internazionali, il suo riconoscimento crea scontri e divisioni, specialmente in ambito politico.

Una riflessione

Noi, esseri umani, abbiamo sempre sofferto le conseguenze delle nostre azioni. Quando guardiamo al passato, studiamo eventi che magari non ci riguardano in prima persona, ma che ci spaventano, ai quali cerchiamo in qualche modo di dare una spiegazione. La nostra necessità di affibbiare una definizione a ciò che vediamo ci spinge a usare termini già noti, narratori di brutalità inimmaginabili, ma che tante volte sono difficili da comprendere a pieno. Uno di questi, il termine « genocidio », si ripropone nei nostri giorni continuamente, tante volte anche in modo errato. Non è questa una debilitazione di tale termine, bensì una riflessione su quanto sia difficile inquadrare alcuni eventi che, seppur ci sembrano tali ai nostri occhi, non rientrano specificatamente in questa disciplina. 

Quando Lemkin nel 1944 coniò il termine « genocidio », lo intese come il « piano coordinato di diverse azioni miranti alla distruzione dei fondamenti essenziali della vita dei gruppi nazionali, con l’obiettivo di annientare i gruppi stessi attraverso la disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali del gruppo ». Lemkin appose tale termine all’Olocausto, superando il precedente « atti di barbarie ». Lui stesso avevo proposto quest’ultimo in riferimento alle deportazioni e alle eliminazioni degli armeni avvenute tra il 1915 e il 1919. Solo con l’apertura del Processo di Norimberga il termine divenne centrale nel dibattito giuridico, sebbene rimanesse meramente descrittivo. Poco tempo dopo, fu l’ONU a riconoscere la legittimità a tale crimine, approvando in Assemblea Generale la Convenzione di cui sopra all’unanimità. Da tale approvazione, le critiche apertesi circa la definizione di tale crimine non sono venute a mancare.

Sebbene la Convenzione inquadri il crimine facendo riferimento a « gruppi nazionali, etnici, razziali e religiosi », la definizione pecca di superficialità. Questo perché esclude una serie di gruppi che furono, anche al tempo del Terzo Reich, al centro dello sterminio di massa nazista. Tale limitazione, che riguarda esplicitamente i gruppi basati sull’opinione politica o sulla cultura, non venne negli anni sorpassata. Questo anche per volontà politica degli Stati, nei confronti dei quali si considera la responsabilità penale in caso di genocidio. È proprio la limitazione della definizione di « genocidio », mantenuta anche nello Statuto della CPI, a creare confusione circa la sua applicabilità.

C’è una tendenza (popolare, non giuridica) ad applicare, infatti, tale termine ad eventi che non costituiscono di per sé dei genocidi, ma anche ad applicarlo a singoli casi specifici, senza considerarne altri. Nella prima fattispecie, nella sua applicazione in ampio raggio, il genocidio si applica per esempio ad Hiroshima, o alla guerra del Vietnam, entrambe vengono meglio inquadrate nelle fattispecie di crimini contro l’umanità e di crimini di guerra (come la Bucha ucraina del 2023). Nella seconda fattispecie, invece, il termine genocidio è applicato quasi all’unanimità a quello ebraico, in gran parte a quello armeno e in modo limitato a quello ruandese.

La domanda che ne consegue è chiara, ossia come è dunque possibile inquadrare il genocidio specificatamente? È effettivamente una domanda a cui credo sia difficile rispondere, specialmente se consideriamo la definizione della Convenzione del 1948, che lo inquadra limitatamente. Contrariamente, una definizione troppo ampia e sfumata, rischierebbe di generare ancora più confusione circa la sua applicabilità. 

L’appiattimento del termine genocidio e il suo utilizzo politico

Dopo le condanne per atti genocidari a partire dalla seconda metà del XX secolo, il termine « genocidio » è diventato sempre più spesso un’arma politica. Furono T. de Waal e M. Kuper a sostenere, nel 2014, che le accuse di genocidio venissero sistematicamente usare come « arma », parlando di retorica politica. Tale questione si lega saldamente alla disciplina giuridica del genocidio, altamente difficile da dimostrare. Perché? Perché nell’elenco della definizione di genocidio, la specificità si trova nella parola « intenzione ». La mancanza di questa rende difficile l’applicabilità di tale fattispecie ad un determinato caso storico. Da qui, il suo utilizzo a fini politici negli scontri internazionali. 

L’utilizzo del termine « genocidio », talvolta banalizzato, rischia – e forse l’ha già fatto – di appiattirne il significato. La confusione che aleggia attorno al termine, usato liberamente perché visto come sinonimo di « immoralità » o di qualcosa di « orribile », genera ulteriori confusione rispetto ad altri crimini internazionali, sostanzialmente diversi, ma considerati uguali. Infine, il largo uso che se ne fa crea un’idea di azione singolare e specifica, quando ogni evento considerato – anche che si tratti di genocidio – detiene specificità uniche e caratteristiche singolari. 

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