Cesare Pavese: nelle sue parole, il racconto di un uomo

di Costanza Maugeri
13 Min.

Cesare Pavese si suicida nell’albergo “Roma” di Torino, città in cui cresce, nella notte tra il 26 e il 27 Agosto 1950.

Scrive Ginzburg, sua amica e scrittrice:

d’estate […], nella città che gli apparteneva, come un forestiero.

Torino, la sua, nella quale si sente estraneo come chi affitta una camera d’hotel nel centro di una città che non conosce.

Con il Pavese-uomo muore, nello stesso istante, lo scrittore. Nell’ultima pagina del “Il mestiere di vivere“, opera postuma pubblicata da Enaudi nel 1952, si legge:

Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più.

18 Agosto 1950

Lo scrittore sfiora l’idea del suicidio, fin da giovanissimo, ad intervalli. Nel Novembre del 1926, infatti, un suo compagno del ginnasio si toglie la vita. Tra la Primavera e l’Estate del ’50 vince il Premio Strega, il più importante tra i letterari allora esistenti. Il 14 Luglio scrive:

Tornato da Roma, da un pezzo. A Roma apoteosi. E con questo? Ci siamo. Tutto crolla. L’ultima dolcezza l’ho avuta da D. non da lei.

Arrivato sulla vetta del successo Cesare Pavese non ha più nulla da aspettarsi. La sua domanda, probabilmente, è questa: Dove sta la felicità, se nemmeno adesso l’ho raggiunta? L’attesa consola, il dolore anche ma:

Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno
in cui nulla accadrà. Non c’è cosa più amara
che l’inutilità […]
[…] La lentezza dell’ora
è spietata, per chi non aspetta più nulla.
Val la pena che il sole si levi dal mare
e la lunga giornata cominci?

Estratto di “Lo Steddazzu”

Pavese è consapevole della sua grandezza da scrittore, lo scrive:

Nel mio mestiere dunque sono re.

In dieci anni ho fatto tutto. Se penso alle esitazioni di allora.

“Il mestiere di vivere”, 17 Agosto.

Ma che senso ha?

Nella mia vita sono piú disperato e perduto di allora. Che cosa ho messo insieme? Niente. Ho ignorato per qualche anno le mie tare, ho vissuto come se non esistessero. Sono stato stoico. Era eroismo? No, non ho fatto fatica. E poi, al primo assalto dell’«inquieta angosciosa», sono ricaduto nella sabbia mobile. Da marzo mi ci dibatto. Non importano i nomi. Sono altro che nomi di fortuna, nomi casuali — se non quelli, altri? Resta che ora so qual è il mio piú alto trionfo — e a questo trionfo manca la carne, manca il sangue, manca la vita.

Non ho piú nulla da desiderare su questa terra, tranne quella cosa che quindici anni di fallimenti ormai escludono.

Questo il consuntivo dell’anno non finito, che non finirò.

Mesi prima vive, inoltre, l’ultima delusione amorosa: Constance Dowling, attrice americana incontrata a casa di amici a Roma.

A lei dedica le parole della raccolta “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” pubblicata postuma nel 1951:

Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

Estratto da “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” della raccolta omonima

Cesare Pavese: dai primi anni a “Lavorare stanca” 1936

In Pavese, forse più di altri autori, la scrittura coincide con la vita. Il suo percorso letterario è percorso di vita.

Egli nasce nel 1908 a Santo Stefano Balbo (Piemonte) e già ad 11 anni prende in mano la penna e scrive dei versi sulla Rivoluzione Russa:

«Trotsky e Lenin van morti / perché hanno tutti i torti / sulla rivoluzion scoppiata / causa l’ignoranza dell’armata. // I Soviet distrutti vanno / perché non dàn che danno / alla disgraziata Intesa / che gode
i frutti della contesa

I primi anni sono, leopardianemente, di studio matto e disperatissimo perché Pavese lo sa che per diventar poeta ci vuole un apprendistato letterario.

Legge molto, moltissimo: Byron, Petrarca, Leunau, Shelley, Melville. Di quest’ultimo traduce “Moby Dick”, opera che, fino a quel momento, il pubblico italiano non conosce in lingua madre. Egli tocca la letteratura straniera con mano, ci si immerge e la traduce.

Nel ’29 incontra le parole di Whitman, che sarà argomento della sua tesi dal titolo: “Interpretazione della poesia di Walt Whitman”. Essa viene respinta dal professore di Letteratura inglese, Federico Olivero e accolta, successivamente, grazie anche a Leone Ginzburg, dal professore di Letteratura francese, Ferdinando Neri. Pavese si laurea in Lettere il 20 giugno 1930.

Lo scrittore da Whitman impara a distendere il verso, la poesia-racconto. Un verso lungo in cui si percepisce il piacere del corpo giovane, un corpo che fa esperienza.

Mio cugino ha parlato stasera. Mi ha chiesto
se salivo con lui: dalla vetta si scorge
nelle notti serene il riflesso del faro
lontano, di Torino. «Tu che abiti a Torino…»
mi ha detto «… ma hai ragione. La vita va vissuta
lontano dal paese, si profitta e si gode
e poi, quando si torna, come me a quarant’anni,
si trova tutto nuovo. Le Langhe non si perdono».
Tutto questo mi ha detto e non parla italiano,
ma adopera lento il dialetto, che, come le pietre
di questo stesso colle, è scabro tanto
che vent’anni di idiomi e di oceani diversi
non gliel’hanno scalfito. E cammina per l’erta
con lo sguardo raccolto che ho visto, bambino,
usare ai contadini un poco stanchi.

I Mari del Sud, primo componimento di “Lavorare stanca” del 1936

Il corpo giovanile diventa, quindi, in “Lavorare Stanca” 1936, il centro di un’esperienza di vita. Esso è anche incontro con l’altro sesso, quello femminile. In tal senso, la parola diventa erotico desiderio. Nell’opera vive anche l’opposto. Gli anziani e gli ubriachi, le donne adulte, infatti, sono legati allo sfruttamento della terra e al cambiamento di tale corpo.

Una sera di marzo già calda, il mio prete ha sepolto

una vecchia coperta di piaghe: era stata sua madre.
La donnetta era morta al paese, perché l’ospedale
le faceva paura e voleva morir nel suo letto.
Il mio prete quel giorno portava la stola
dei suoi altri defunti, ma sopra la bara
spruzzò a lungo acqua santa e pregò anche più a lungo.
Nella sera già calda, la terra rimossa odorava
sulla bara dov’era un marciume: la vecchia era morta
per il sangue cattivo a vedersi sfumare le terre
che — rimasta lei sola — spettava a lei sola salvare.
Sotto terra, un rosario era avvolto alle mani piagate
che, da vive, con tre o quattro croci su pezzi di carta
s’eran messe in miseria

“Proprietari”, Lavorare stanca 1936

Stesso titolo, un’altra opera: “Lavorare stanca” 1943

La corporeità e il realismo dei suoi componimenti iniziano a dissolversi durante il confino a Brancaleone Calabro (1935) causato da attività antifascista. Nel “Lavorare stanca” del 1943 Pavese aggiunge ventotto componimenti nuovi e ne rigetta sei (Canzone di strada, Proprietari, Ozio, Tradimento, Cattive compagnie, Disciplina antica). Essi si portano dietro una vena realistica che manca nella seconda edizione.

All’azione si sostituisce l’immobilità; al ragazzo e al suo corpo si sostituisce l’uomo solo, adulto. In lui si manifesta il rapporto problematico con il sesso femminile. Quest’ultimo appare sfuggente. Uno spazio incolmabile con il giovane pieno di vita, corpo e speranze del ’36. Il verso disteso, di conseguenza, si inizia a ritrarre:

L’uomo solo rivede il ragazzo dal magro
cuore assorto a scrutare la donna ridente.
Il ragazzo levava lo sguardo a quegli occhi,
dove i rapidi sguardi trasalivano nudi
e diversi. Il ragazzo raccoglieva un segreto
in quegli occhi, un segreto come il grembo nascosto.

L’uomo solo si preme nel cuore il ricordo.
Gli occhi ignoti bruciavano come brucia la carne,
vivi d’umida vita. La dolcezza del grembo
palpitante di calda ansietà traspariva
in quegli occhi. Sbocciava angoscioso il segreto
come un sangue. Ogni cosa era fatta tremenda
nella luce tranquilla delle piante e del cielo.

Il ragazzo piangeva nella sera sommessa
rade lacrime mute, come fosse già uomo.
L’uomo solo ritrova sotto il cielo remoto
quello sguardo raccolto che la donna depone
sul ragazzo. E rivede quegli occhi e quel volto
ricomporsi sommessi al sorriso consueto.

“Rivelazione”, “Lavorare stanca”1943

“Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”: il trionfo triste del “tu”

Constance Dowling nel film La strada finisce sul fiume

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” contiene, con molta probabilità, poesie d’occasione, legate alla sua vita sentimentale. Il verso si svuota, si corrode diventando simbolo essenziale.

Sul piano puramente linguistico questo corrisponde a un’esasperazione dei sostantivi e ad una struttura paratattica ossia basata sulla coordinazione. Nei componimenti di “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, divisa a sua volta in due sezioni: “La Terra e la Morte” e “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, il “tu” che ne “Lavorare Stanca” sfuggiva, qui finalmente trionfa, satura tutto lo spazio poetico, ma:

Il “tu” che finalmente si accampa vincitore vive una sorta di trionfo triste,
perché l’altro e il suo corpo si sono ritirati, il mondo è un riflesso, un’immagine di lei, e le parole non “significano” più nulla, non godono più di alcuna referenza possibile

“L’Opera poetica” di Cesare Pavese, Mondadori 2021. Estratto dall’Introduzione a cura di Antonio Sichera, professore di Letteratura Italiana Contemporanea presso l’Università di Catania.

Pavese scrive in una dei componimenti di questa raccolta, dotata di una carica poetica maestosa:

Sei la vita e la morte.
Sei venuta di marzo
sulla terra nuda —
il tuo brivido dura.
Sangue di primavera
— anemone o nube —
il tuo passo leggero
ha violato la terra.
Ricomincia il dolore

Prima strofa di “You, Wind of March”

Cesare Pavese: il poeta della felicità

Molti lo chiamano il poeta dell’attesa. Io credo che Cesare Pavese, può sembrare un ossimoro data la sua fine, sia il poeta della felicità.

Egli, forse, più di chiunque altro, sa che nell’aspettarsi qualcosa dalla vita risiede, forse, il senso della vita stessa. Aspettare è un abitudine primordiale. Si attende per venire al mondo, si attende per iniziare a camminare, a parlare e a scrivere. E ogni volta è un nuovo inizio come di quel bambino, quello che vedi di sfuggita, con il nasino appiccicato al finestrino. Cosa sta facendo? Sta iniziando a leggere il mondo dalle piccole cose; cartelloni pubblicitari, segnali stradali. Dove poggia il suo viso, il vetro si appanna, è rimasto a bocca aperta.

L’attesa, in tal senso, non è fine a se stessa, è la più umile tra le pretese di scoprirsi diversi, rinati.

L’unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante. Quando manca questo senso – prigione, malattia, abitudine, stupidità, – si vorrebbe morire.

Cesare Pavese

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