Blonde (2022): l’oblio di un’icona tra sofferenza e trauma

di Emanuele Fornito
Pubblicato: Ultimo aggiornamento il 11 Min.

Trama

Uno sguardo su traumi, violenze, amori trovati e perduti, ma anche fama e popolarità, che caratterizzarono la vita di una delle icone più famose della storia: Marilyn Monroe.

Recensione

Blonde, presentato a Venezia e rilasciato sulla piattaforma streaming Netflix il 28 settembre, si presenta, dopo The Irishman (2019), come una delle produzioni migliori del colosso statunitense e, artisticamente, tra le più ambiziose. A pochi giorni dall’uscita il film ha tuttavia spaccato l’opinione di appassionati (e non), ricevendo, a nostro avviso ingiustamente, più demeriti che lodi.

Tratta dall’omonimo romanzo di Joyce Carol Oates, la storia è in realtà una biografia romanzata: per i molti che probabilmente non erano a conoscenza di questa caratteristica, ciò vuol dire che la storia è sì ispirata a fatti e persone realmente esistiti, ma essi sono reintepretati in chiave artistica. Ed è proprio questo che si avverte durante tutto il film.

Nella miglior interpretazione compiuta da Ana de Armas fino ad ora, Marilyn Monroe, o meglio dire Norma Jeane, viene rappresentata in quasi antitesi a quel sex-symbol e a quella carismatica icona a cui tutti eravamo abituati, raffigurando, in maniera molto estrema, una donna non sicura di sé ma fragile, non perfetta ma traumatizzata dalla propria infanzia e da un sistema assetato di carne e tirannico com’era Hollywood allora (e come lo è in parte ancora oggi). Riteniamo, tuttavia, che rappresentare l’interiorità di una persona che abbiamo imparato a conoscere soltanto per il suo personaggio (e della quale non abbiamo modo di conoscere la persona che c’era dietro, la vera Norma Jeane), non voglia dire mancare di rispetto a tutto ciò che ha rappresentato, e che rappresenta ancora oggi. A nostro avviso, infatti, una Norma Jeane profondamente vittimizzata come quella del film va a mettere a nudo una condizione umana intimamente sofferente, andando quindi ad articolare una larga critica ai diversi meccanismi sociali e relazionali con le quali la stessa protagonista si interfaccia. Come anticipato già in introduzione, quella di Blonde è una storia che parte da un’icona femminile, ma che va ben oltre quest’ultima: la Marilyn di Andrew Dominik diviene facilmente una donna universale e generale, che rispecchia se stessa nello schermo più per la sua umanità che per la sua fama.

Frame di una scena del film

Attraverso un’apertura quasi subito in medias res, lo spettatore è posto dinanzi alla psicologia di un trauma: la piccola Norma non solo soffrirà tutta la vita per un padre che l’ha abbandonata ancor prima di nascere, ma anche per una madre con chiari squilibri che tenta perfino di ucciderla. Attraverso la scelta di toni onirici, che per lo scopo di rappresentazione dell’interiorità psicologica abbiamo molto apprezzato, Dominik pone subito l’attenzione, lo ripetiamo ancora, sull’umano, non sul personaggio. E in realtà la distinzione è abbastanza chiara durante tutta la durata del film: è la stessa Norma che, anche per timidezza, non riesce a riconoscersi in quella donna sensualmente provocatrice che riempiva le prime pagine dei giornali e che si distaccherà sempre più da lei, sino a raggiungere un commiato totale attraverso una scena che è destinata a segnare l’immaginario cinematografico contemporaneo: seduta allo specchio, una Norma distrutta psicologicamente vede il riflesso di sé stessa che ride di gusto, indicando una insanabile spaccatura nel doppio ego della donna. Alla luce di quanto appena scritto, è possibile rendersi conto della genialità di questa scena, che è peraltro contornata da una bellezza visiva davvero magnifica.

Norma si trova quindi ben presto smarrita della sua vera persona, non riesce a trovare se stessa né un luogo dove possa sentirsi sicura. La necessità di una figura di riferimento non è legata quindi, come ha sminuito qualcuno, a daddy-issues, ma alla naturale conseguenza che forti traumi possono avere sulla psicologia di una qualsiasi persona.

Frame tratto da una scena del film

Arrivati a questo punto ci si rende quindi conto, nonostante Norma avesse pensato ingenuamente che la fama l’avrebbe fatta sentire relizzata, che è l’amore (o meglio la necessità e la ricerca di esso) la sua vera salvezza e, nel film, questo sentimento è manifestato in diversi modi. Vi è prima un triangolo amoroso con un figlio illeggittimo di Charlie Chaplin (Xavier Samuel) ed Eddy Robinson Jr. (Evan Williams), con i quali instaurerà un amore sincero e giovanile, poi un amore tossico e violento con Joe DiMaggio (Bobby Carnevale) al quale resterà legata nonostante gli abusi proprio a causa dei suoi disturbi affettivi, e infine un amore maturo che instaura con lo scenggiatore teatrale Arthur Miller (Adrien Brody). Accanto a questi amori per Norma c’è n’è tuttavia uno (derivante anch’esso dai traumi subiti in infanzia), per lei rivelatosi impossibile: la maternità. Nonostante la donna venga rappresentata come più volte entusiasta di una gravidanza, il suo sogno di maternità viene puntualmente ostacolato: prima si lascia intendere ad un aborto forzato dagli agenti e produttori, poi una caduta comporta la perdita del bambino e, alla fine, la donna viene nuovamente forzata ad abortire a causa dello scandalo che la nascita del figlio avrebbe comportato (si lascia intendere infatti che l’identità del padre corrispondesse proprio con l’allora presidente degli USA John Fitzgerald Kennedy).

Ana de Armas nei panni di Norma Jeane

Attraverso scene a tratti distopiche, a tratti oniriche (stili che in realtà predomineranno nei periodi più bassi della vita di Norma), ciò che lo spettatore instaura durante le scene di aborto è un rapporto di empatia con la protagonista, arrivando a sentirsi quasi angosciato da quanto la nascita di un figlio le venga continuamente negata e avvertendo fortemente il suo ruolo di vittima. Questo, tuttavia, non vuol dire che la scelta nasca da una propaganda anti-abortista: raccontare di una donna che sogna di essere madre non vuol dire infatti essere contro l’aborto. L’impegno intellettivo richiesto è tuttavia forse eccessivo per un’opinione pubblica che vuole soltanto politicizzare l’arte a difesa delle proprie ideologie politiche, ignorando completamente quella che è l’opera in sé. Eppure, riteniamo che il film fosse al riguardo molto autoesplicativo, e che non si necessiti di complicate chiavi di lettura per comprendere che una rappresentazione, definita da qualcuno degna di un film horror (sminuendo anche lo stile surrealista), riguardasse la donna e non fantomatici messaggi politici subliminali.

E lo stesso si potrebbe dire delle accuse mosse riguardanti una sessualizzazione della stessa Ana de Armas. Ancora una volta, tutto ruota attorno alla volontà di guardare l’opera con malizia: a nostro avviso la scelta di nudi e scene più o meno esplicite va in consonanza con quella che è stata la mercificazione subita dalla stessa Marilyn Monroe negli anni ’50 e ’60, con la volontà di far arrivare in maniera diretta la violenza subita da ella, e non con una “perversione” del regista.

Una scena del film

Il lavoro di Dominik non lo riteniamo tuttavia perfetto. Da un lato troviamo infatti una vittimizzazione quasi estrema della protagonista: comprendiamo le intenzioni, ma avere dinanzi una Norma Jeane vittima in maniera estrema di ogni situazione in cui si trova non è totalmente apprezzabile. D’altro lato vi sono scelte stilistiche a nostro avviso evitabili: i dialoghi che Norma instaura con un feto riprodotto in CGI risultano poco convincenti e appaiono come goffi tentativi di rimarcare un sentimento che lo spettatore era già nelle condizioni di comprendere. Anche la scelta di rappresentare un concepimento dal punto di vista microscopico finisce per essere un manierismo francamente riuscito male verso il cinema di Malick, proprio a causa della mancanza di armonia rispetto allo stile generale del film, che invece è molto notevole.

E infatti, dal punto di vista formalmente artistico, Blonde va inevitabilmente a differenziarsi: il passaggio dal colore al B/N (una scelta che segue gli alti e bassi della psicologia della protagonista), le inquadrature ambiziose e visivamente avvenenti e l’utilizzo di stili cinematografici differenti vanno a creare una delle migliori opere degli ultimi anni. Numerose sequenze riescono infatti ad emozionare soltanto grazie alla bellezza che le caratterizza, grazie all’uso magistrale dei colori, della messa a fuoco e dei movimenti di macchina, che riescono insieme a dare funzionalmente un senso di angoscia e quasi terrore nei momenti buii della psicologia di Norma e un senso invece idilliaco e meraviglioso durante i suoi istanti felici (in cui si nota, stavolta positivamente, un’ispirazione al capolavoro di Terrence Malick The Tree of Life, 2011). Alla luce di ciò reputiamo la fotografia di Chayse Irvin pressoché perfetta.

Ana de Armas e Adrien Brody in una scena del film

In conclusione, Blonde si sta rivelando un film profondamente incompreso poiché finito al centro di una tendenza anti-artistica, politicizzante e politicizzata, che sta distogliendo l’attenzione dall’effettivo livello qualitativo che il regista è riuscito a portare. In un periodo storico costellato da inconsapevolezza artistica, in cui film commerciali di supereroi sono tra i pochi (se non gli unici) ad essere conosciuti ed apprezzati dalla maggioranza delle persone, il film di Dominik si inserisce, con i propri difetti, come una ventata di bellezza, di stile, di estro, di interiorità e di emozione. L’invito è quindi quello di diffidare da strumentalizzazioni e invece di apprezzare, con mente aperta e con la voglia aristotelica del meravigliarsi, l’ottimo film che dimostra essere Blonde.

Scritto da Emanuele Fornito con la collaborazione di Michele Ponticelli


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